LA Caverna


Investire in educazione

Nei dibattiti pubblici, tra politici, esperti ed educatori, emerge frequentemente la domanda: conosciamo veramente i giovani? Le ripetute tragedie giovanili devono spingere educatori e genitori,  l’intera società civile a investire in un'educazione relazionale consapevole.

Solo un impegno collettivo può gettare basi solide per una cultura del rispetto e della comprensione reciproca. Nessuno nasce disperato, e la disperazione non è un destino ineluttabile. Anche chi cresce in contesti di estremo disagio, se supportato da una minima socialità e condivisione, mantiene viva la speranza e la capacità di immaginare il futuro. Il divario comunicativo è amplificato dall'impatto dei social network, che spesso rendono difficile agli adulti cogliere le reali difficoltà dei ragazzi. Questa distanza può essere considerata una forma di analfabetismo relazionale: senza un linguaggio comune, il dialogo si interrompe e si perdono segnali fondamentali. La violenza, spesso sottovalutata, trova spazio in questo silenzio, manifestandosi non solo in forme fisiche, ma anche attraverso stereotipi e atteggiamenti inconsapevoli.

Tuttavia, attribuire ogni responsabilità a genitori ed educatori sarebbe riduttivo. Il contesto culturale, le amicizie e gli ambienti in cui crescono i ragazzi giocano un ruolo cruciale nella formazione dei loro valori e comportamenti. La famiglia e la scuola non possono essere gli unici riferimenti etici, poiché le categorie antropologiche tradizionali non bastano più a cogliere la complessità attuale. Occorre interrogarsi sul sistema culturale e sociale in cui definiamo la "normalità" e il "bravo ragazzo". Spesso, solo dopo eventi drammatici, si riconoscono segnali che erano stati ignorati, sollevando interrogativi sulla capacità di comprendere le relazioni e l'analfabetismo affettivo ed emotivo del nostro tempo.

Non possiamo delegare l'educazione esclusivamente alla scuola e alla famiglia. Delegare a un'istituzione il compito di colmare le carenze educative degli adulti rischia di essere una forma di deresponsabilizzazione. Fenomeni come i femminicidi e la violenza diffusa sono solo la punta di un iceberg più profondo, che riguarda la perdita di riferimenti antropologici e morali. Tuttavia, è possibile sostenere famiglie e scuola in questo compito. Molti genitori ed educatori desiderano comprendere come la violenza si trasmetta nelle relazioni e il primo passo è riconoscere i segnali d'allarme, imparando ad ascoltare i giovani. L'obiettivo è creare una rete di sostegno che coinvolga tutta la comunità, affinché nessuno si senta solo.

Speranza e amore non possono essere imposti ma sono elementi essenziali per una vita piena di senso. Certo, famiglia e scuola svolgono un ruolo cruciale in questo scenario. Tra i banchi giungono spesso ragazzi già segnati da esperienze difficili. Non sempre si conosce il loro passato, ma la loro storia si incrocia con quella dei genitori, degli insegnanti e dei collaboratori. La scuola accoglie il mondo così com'è, con le sue speranze e le sue disillusioni. I genitori, spinti dalla paura del futuro, tendono a proiettare sulle scelte scolastiche dei figli la necessità di sicurezza economica e lavorativa, mentre i ragazzi, pur immersi in queste ansie, continuano a cercare la propria originalità.

Gli insegnanti si trovano a mediare tra queste due spinte, cercando di proteggere il diritto dei giovani a sperare e a diventare ciò che realmente sono. Se sperare è un compito (Ernst Bloch, in "Principio Speranza") scuola e famiglia, luoghi di formazione e crescita, devono essere anche spazio di speranza. La speranza non è una materia di studio, ma è il respiro di ogni progetto educativo. Essa si nutre del riconoscimento del valore intrinseco di ogni persona. In famiglia, a scuola e in società, i giovani possono sperimentare un modello di convivenza basato sull'inclusione, sul dialogo rispettoso, sulla responsabilità condivisa e sull'accettazione della fragilità. Devono apprendere che la diversità è fraternità e che aiutare ed essere generosi non è motivo di derisione. Devono, inoltre, riscoprire il valore dell'attesa: la distanza tra desiderio e realizzazione.

La vita è fatta di attese e dimenticarlo significa dissipare il presente, consumare risorse e annientare relazioni. I ragazzi hanno bisogno di adulti presenti e di spazi di autonomia. Servono adulti competenti, capaci di trasmettere la speranza senza appiattirsi sulle derive del tempo presente. Papa Francesco, nel suo "Patto Educativo" (2019), parla della necessità di un "villaggio dell'educazione", un impegno collettivo che accompagni i giovani nella costruzione del loro futuro. Scuola e famiglia devono essere luoghi di speranza, uno spazio sacro in cui i ragazzi non siano costretti a riprodurre un mondo disilluso, ma possano scoprire il valore della loro vita.


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In questo numero hanno scritto:

Umberto Pietro Benini (Verona): salesiano, insegnante di diritto e di economia, ricercatore di verità
Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
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Guido Saracco: già Rettore Politecnico di Torino, professore, divulgatore, ingegnere di laurea, umanista di adozione.