Cominciando con ordine: l’indubbia obsolescenza di alcune strutture e la necessità di riordinare archivi cartacei non si è tradotta in una migliore offerta e fruizione dei beni librari che l’Italia possiede qualitativamente e quantitativamente in misura maggiore che altri Paesi.
Da una parte negli ultimi due decenni è cresciuta a dismisura la percezione del pericolo all’interno delle strutture pubbliche: un ambiente, una scala, un volume cartaceo sono in primo luogo fonte di ansia perché intorno ad essi si può creare un sinistro e quindi avviare una causa legale e/o multe onerose contro l’ente che non ha saputo mettere in sicurezza i locali, mettere a norma la scala, custodire i libri in locali antincendio. La legislazione e le norme sindacali stringono d’altro canto in un cerchio il raggio d’azione dell’amministrazione: lo spessore dei muri, l’altezza delle scale, la forma e i materiali degli arredi devono conformarsi a normative studiate per edifici moderni o modernissimi, non certo per palazzi seicenteschi i cui pregi artistici e storici divengono un ostacolo e non più un valore.
Il momento di grave difficoltà economica che attraversa il nostro Paese e l’apparente alternativa offerta dalla digitalizzazione hanno promosso nella gestione del patrimonio bibliotecario la rinuncia al cartaceo: la carta è ingombrante e incendiabile, gli ampi tagli al personale addetto non prevedono rimpiazzi. Si offre su un piatto d’argento la soluzione: restringere gli spazi bibliotecari ad ambienti in cui la disposizione dei libri sarà ripensata in base a criteri non scientifici ma pratici, eliminare i doppioni, trasferire il materiale restante in depositi non necessariamente vicini agli utenti che, su richiesta, potranno avere nei tempi e nei modi concessi dall’amministrazione un pdf o il volume stesso che prima era alla portata di mano nella sede storica per definizione "rischiosa" e "pericolante".
Il problema è particolarmente grave per le biblioteche specialistiche universitarie: tutto ciò che è piccolo, antico e a gestione statale deve "inevitabilmente" andare incontro a razionalizzazioni, messa in sicurezza, automatizzazione dei processi. Tuttavia, la dismissione di una biblioteca specialistica danneggia la ricerca, i docenti, gli studenti: non è un fatto meno grave della chiusura di un reparto ospedaliero, ma non fa notizia perché i danni non sono materiali e gli interessati, in genere, sono poche persone, irrilevanti agli occhi dell’opinione pubblica.
Dopo il decennio di discredito della docenza universitaria seguito alla Legge Gelmini (240/2010), il docente che si oppone a veder smantellato e trasferito il patrimonio librario a contatto del quale lavora (esattamente come un chirurgo tiene i suoi strumenti accanto o nella sala operatoria) è visto come retrogrado, egoista (vuole i libri vicino), generatore di potenziali pericoli per sé e gli altri. È vero, d’altra parte, che la gestione di molte biblioteche esistenti non è ottimale, soprattutto per il fatto che il personale, fortemente tutelato, spesso non ha alcuna qualifica e fruisce di orari e permessi non compatibili con l’apertura e la fruizione dei libri. Ancora una volta, non viene proposto di ammodernare i locali, assumere nuovo personale formato e preparato, prolungare gli orari, bensì si procede con la chiusura e l’abbandono dell’esistente per andare incontro a un futuro più faticoso ma comunque rispondente alle esigenze del mondo nuovo: risparmiare, efficientare, organizzare, semplificare, automatizzare.
Le soluzioni variamente adottate in Italia e ancor prima in vari paesi europei (Germania, Paesi Bassi, Svezia, solo per fare alcuni esempi noti) nel settore delle biblioteche specialistiche universitarie contemplano (e di fatto hanno già contemplato) la perdita di nuclei storici e scientifici di valore inestimabile. Organizzati con criteri messi a punto direttamente dai maestri che hanno tracciato i confini delle discipline, tali nuclei costituivano altrettante cellule della trasmissione del sapere scientifico: molte, diffuse e democratiche (perché pubbliche). Smembrare e riammassare tutto ciò causa dunque svariati danni: l’insieme di monografie, miscellanee e riviste che permettono al docente e non meno allo studente in formazione di avere davanti a sé tutti gli strumenti necessari per studiare e stimolare la curiosità viene irrimediabilmente sconvolto e riorganizzato in base a criteri totalmente altri.
Non è scientifico, per esempio, conferire in deposito libri vecchi e meno consultati: si tratta di un criterio ridicolo allorché si pensi che nella maggior parte dei settori umanistici la letteratura fondamentale è ottocentesca e i volumi "poco consultati" sono spesso quelli di maggior valore e sono anzi di valore proprio perché rari e meno noti ai più. Altrettanto assurda è la soluzione, pure praticata, di separare monografie da periodici: due diversi modi di sviluppare la ricerca che dialogano necessariamente tra loro e devono essere contemporaneamente e facilmente a disposizione. Avere davanti agli occhi gli strumenti cartacei relativi a una disciplina permette di scorrere i titoli e scoprire non solo ciò che si cerca al momento, ma anche articoli nuovi e inaspettati, nonché di approfondire immediatamente e procedere senza interruzioni nelle proprie ricerche.
Occorre altresì osservare la totale mancanza di sensibilità delle amministrazioni verso questo tipo di ragionamenti e la loro ostilità al dialogo sia per un sotterraneo disprezzo verso la classe docente sia per l’ormai prevalente approccio efficientistico che si allontana sempre più dalle esigenze delle persone per mettere in pratica modelli astratti di organizzazione para-aziendale, i quali non necessariamente (e anzi quasi mai) sono appropriati alle pratiche umanistiche. In altre parole, se fino a pochi anni fa era normale avere a capo di prestigiose biblioteche letterati e studiosi, ora è normale avere laureati in economia, ingegneria gestionale o "umanisti informatici" o umanisti riconvertiti (e quindi fervidamente zelanti verso il nuovo). In parallelo, la visione dello studente come cliente da soddisfare, induce a preferire l’allestimento di sale e terrazze di svago e di utilities digitali piuttosto che l’accesso diretto al libro. Eppure, nessuna comunità di studio si forma se non tramite l’interazione fra libri, insegnanti e allievi.
Per continuare il parallelismo con l’ambito medico: chiudere un reparto specializzato di cardiologia e lasciare un paio di cardiologi per le visite indispensabili significa, sic et simpliciter, che l’ospedale rinuncerà ad avere una scuola e una formazione cardiologica proprie e che non progredirà in quel settore. È infatti accaduto in diversi atenei pubblici prestigiosi che le scuole di alcune discipline, venuti meno i docenti e le biblioteche dedicate, si siano ridotte a pallidi spettri o addirittura siano svanite, morte, finite. Circa l’ambito ospedaliero, val la pena di ricordare che svariati dipartimenti di medicina non hanno più biblioteche (i libri svaniti, rinchiusi, le riviste smaltite nel riciclo…), ma soltanto postazioni informatiche.
Le reazioni a questo processo quasi sempre sottaciuto e silenzioso sono in gran parte affidate ai principali utenti delle biblioteche che subiscono la sorte dell’alleggerimento e della valorizzazione (i termini orwelliani con cui le amministrazioni definiscono le chiusure). In particolare, l’ambiente universitario dove il cartaceo è ancora indispensabile, dipartimenti letterari, di Giurisprudenza, di Formazione (verrebbe da dire, in realtà, tutti) dovrebbe reagire opponendo ferme proteste alla progressiva dismissione dei propri strumenti. Ciò non avviene e non deve sorprendere: la classe universitaria è ridotta di numero, indebolita, fiaccata da riforme umilianti e convinta di non avere più una chiara missione nella formazione dei giovani e delle classi dirigenti, che oggi vengono infatti selezionate fuori dal paese o in atenei privati che perseguono modelli anglosassoni (o pseudo anglosassoni), nei quali il libro non è contemplato o fa da sfondo a slides e dispense telematiche. La condiscendenza e la sottomissione sfiorano l’autolesionismo: in cambio di vaghe promesse, di punti organico, di favori e concessioni, la governance del libro avanza implacabile senza che quasi nessuno, anche in posizioni autorevoli, osi levare un lamento.
L’autorappresentarsi come una classe di sconfitti che non possono ormai far nulla contro poteri forse ingiusti ma comunque temuti e intoccabili pone un alibi alla propria cattiva coscienza: cedere su tutto in cambio di (quasi) niente. E ciò accade in continuazione, nonostante qualunque intellettuale dotato di una minima consapevolezza sappia che i libri, la carta sono e restano indispensabili alla formazione di una coscienza critica e scientifica, che non tutto è digitalizzato e mai lo sarà, che non sarebbe lecito e democratico costringere, senza alternativa, a ricorrere a computer e pdf quando di fronte ai propri occhi si può avere e gustare il tesoro culturale che grandi studiosi hanno prodotto e custodito cum ordine et ratione pensando a chi sarebbe venuto dopo di loro e che adesso si sta follemente e colpevolmente annientando.
Gli studenti, d’altro canto, sono indirizzati verso cause molto lontane ciò che li riguarda direttamente: immigrazione, omofobie, ambiente, rivendicazione dei più svariati diritti (tra cui manca però quello al libro) tengono occupati gli spazi di un dibattito giovanile ormai marginale e omologato (con qualche lodevole eccezione, peraltro pochissimo visibile).
Non esiste una alternativa fra libro e digitale: essi possono convivere. Preservare l’esistente e accrescere le opzioni è progresso, annientare l’esistente per offrite surrogati è delittuoso. Molto di recente, con una nota del 12 maggio 2020, l’area umanistica del Consiglio Universitario Nazionale ha lanciato un allarme alla Conferenza dei Rettori per l’espandersi di tali dannose pratiche e ha ribadito l’indispensabilità del libro e dei nuclei bibliotecari specialistici per la realizzazione del "fertile intreccio" fra didattica e ricerca. Speriamo che tale grido non resti, finalmente, inascoltato.