Recentemente mi dilettavo a leggere gli scritti di Dante Gabriel Rossetti, che con John Everet Millais e William Hunt fondò il movimento (anzi la confraternita) preraffaellita nel 1848. In seguito, si aggiunsero altri ottimi artisti, tra cui Edward Burne-Jones e William Morris.
Il loro pensiero era che l’arte dopo Raffaello si fosse guastata. Guardavano invece con attenzione ai pittori prerinascimentali, ai quattrocentisti, ai “primitivi”, attingendo particolarmente dai Nazareni: sul piano ideale vagheggiavano un ritorno a “un araldico mondo della cristianità medioevale”.
Ho sempre molto amato questi artisti, di cui per altro è in corso una mostra a Forlì fino al 30 giugno che spero proprio di riuscire a vedere e che mi ha sollecitato a rileggere gli scritti ma anche i versi di Rossetti: che fu anche un grande poeta, amante di Dante Alighieri. In giovinezza Rossetti tradusse l’intera Vita Nuova e la maggior parte della lirica stilnovistica in inglese.
Fu un’epoca in cui gli artisti potevano permettersi il gusto della pittura e della poesia, passando dall’una all’altra facilmente, beccandosi comunque un sacco di insulti: furono presi in giro nientemeno che da Charles Dickens, che propose ironicamente una confraternita pre-newtoniana, contraria alle leggi di gravità. Ma celebri sono le lettere in loro difesa - al Times - di John Ruskin. Erano di fatto considerati contestatori venuti dal nulla, sostenitori di dettami estetici velleitari. Visti gli attacchi acerrimi della critica, e versando in difficoltà economiche, Rossetti tentò persino di procurarsi un impiego come telegrafista presso le ferrovie.
Ricordo la scoperta delle loro opere con enorme emozione, la prima volta che le vidi dal vero fu a Londra, alla Tate Britain. Quando arrivai davanti al quadro di “Ofelia” di Millais, o a “Ecce ancilla domini” di Rossetti rimasi a bocca aperta: quelle opere emanavano un’atmosfera particolare, minuziosa nei dettagli, ma di una visionarietà ultraterrena.
Era come se l’Ideale accuratamente trasmesso mediante un ordito razionale in realtà fomentasse distinti e contrastanti sentimenti, in cui armonia e difformità, luce e tenebra o se vogliamo dire, caos dionisiaco ed equilibrio apollineo coesistevano in un’irrisolta emozione, una sensualità carnale e al contempo straniante. Le loro opere, apparentemente di un’estetica “poco moderna”, sono a mio parere assolutamente gravide dell’arte a venire, e non a caso ancor oggi risplendono.