Vita d'artista


Barbie

In una bollente giornata d’agosto ho deciso di andare a vedere "Barbie", quello da molti definito il film più iconico della stagione. Lo davano al Cinema Ariosto e ho avuto un’emozione rara nell'entrare e scoprire che eravamo solo in due in tutto il cinema. Ero attratta non tanto dal film in sé, ma da tutte le chiacchiere intorno che mi hanno incuriosito.

"La Barbie" infatti è uno spartiacque nella storia del Novecento e della femminilità e la mia generazione è stata la prima a giocare con una bambola in versione adulta: prima d’allora tutte le bambine del mondo avevano dei bambolotti da curare, a cui davi il biberon e a cui cambiavi il pannolino.

Con Barbie il mondo è cambiato e al posto di sognare di fare le mamme, le bambine potevano essere ogni cosa, dal medico all’astronauta. Indagando ho scoperto che vi è anche la Barbie “artista”, in vendita con il suo atelier… poteva forse mancare? Io ne avevo diversi tipi e ne ricordo l’evoluzione, ma ciò che era eclatante è che non compravi solo la bambola ma un “mondo”. Ricordo di averci giocato moltissimo, inventando avventure brillanti, la sua bellezza adulta era anche conturbante, in effetti. Qualche anno fa trovai un libro fotografico sulle prime Barbie in pose da diva, perché stavo pensando a un progetto artistico proprio su di lei, visto l’iconicità delle dolls e in fondo, il nostro destino comune, dato che per anni fui chiamata così da tutti.

Il film vale per la cura con cui “Barbieland” è stata concepita: il design è preciso e il film imita in modo eccellente lo schema del gioco delle bambine. La Barbie anche se corporea rimane bambola, vive in un universo perfetto in cui non si fa altro che sorridere e in un tempo privo di eventi e di destino, dove tutto è rosa. Ammetto che quando ho visto realizzati l’armadio e la piscina di Barbie (ovviamente l’acqua è un pavimento in plastica blu, glitterato), sono rimasta a bocca aperta dall’emozione, ho ricordato il mio piacere infantile per quei finti ambienti, quell’atmosfera lucida, levigata, che incarna perfettamente quello che Han definisce la società della positività. Mi ha ricordato per certi versi “The Truman Show”, estetico ma anche estatico e profondamente legato una dimensione soteriologica: promette infatti la nostra redenzione. Nel mondo della levigatezza e della positività infatti non vi è spazio per alcun dolore, per alcuna colpa, per alcuna ferita. Senza dolore e senza ferita però esiste solo la prosecuzione dell’uguale, del famigliare e del consueto in un mondo già svelato.

Il bello, così dice Rilke nella prima Elegia Duinese, “non è che il terribile al suo inizio, che noi possiamo ancora sopportare”.

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In questo numero hanno scritto:

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Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Alessandro Cesare Frontoni (Piacenza): 20something years-old, aspirante poeta, in fuga da una realtà troppo spesso pop
Emanuel Gazzoni (Roma): preparatore di risotti, amico di Socrate e Dostoevskij, affascinato dalle storie di sport
Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite
Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro