Parleremo dell’inevitabile fine del sistema solare nel prossimo editoriale, mentre oggi cerchiamo di analizzare quali opzioni abbiamo nel caso di crisi planetarie derivanti non solo da impatti di asteroidi, ma anche da pandemie incontrollabili, guerre nucleari, crisi climatiche estreme e altre simili iatture. Ci interessano insomma soluzioni in grado di salvare molte più persone rispetto alla colonizzazione di Marte ante litteram.
La prima e più realistica opzione è il trasferimento della vita in bunker o vere e proprie città sotterranee. Pare che la Svizzera già ne abbia costruiti per ospitare la sua intera popolazione. Catherine Austin Fitts, segretario al dipartimento della residenza pubblica con il presidente George W. Bush, ha recentemente dichiarato che in vent’anni è stata costruita negli Stati Uniti una rete sotterranea da 21 mila miliardi di dollari di investimento, di cui farebbe parte anche una città-bunker sotterranea ricavata a Washington, e fatta di appartamenti a prova nucleare dotati di ogni comfort. Tutto questo sarebbe destinato in primis ai super ricchi o potenti, cose che spesso coincidono, ma certamente a molti di più individui di quanti potrebbero approdare su Marte. Nel frattempo, in superficie, dovrebbe passà a nuttata, qualcosa che potrebbe richiedere anni o decenni a seconda dei casi.
Sarebbe certo auspicabile che la costruzione di una rete di rifugi di questo tipo non fosse lasciata alle prerogative dei singoli stati ma diventasse un elemento di resilienza dell’umanità nel suo complesso, anche per prevenire le migrazioni di massa e le instabilità geopolitiche indotte dalle crisi planetarie, ma questo oggi sembra molto difficile da ottenere e soprattutto finanziare.
Altre opzioni invece potrebbero essere praticate se la vita in superficie potesse essere ancora praticabile, almeno in alcune parti del Pianeta.
Secondo alcuni il mare, atteso in innalzamento nei prossimi decenni, potrebbe poi ospitare città galleggianti sostenute dal mare stesso per approvvigionamenti di energia, acqua e cibo. Anche questa opzione è costosa, tanto più costosa quanto più si ambisca a rendere le piattaforme resistenti a tempeste estreme.
Esistono poi zone del Pianeta (Nuova Zelanda, parti del Canada o della Patagonia per fare esempi) relativamente poco abitate che potrebbero, specie in caso degli esiti peggiori della crisi climatica, offrire un rifugio e un approdo per nuovi coloni.
Se la crisi climatica, ambientale e geopolitica portasse addirittura al collasso delle filiere, un’opzione sarebbe quella di sviluppare città autosufficienti con produzione di alimenti integrata attraverso serre idroponiche, ossia coltivazioni collocabili all’interno del costruito e con l’uso di acqua come prevalente veicolo di nutrienti alle piante. Certo questo costerebbe in termini energetici e comporterebbe un cambio di modello urbanistico notevole.
Tutte le alternative viste necessitano però di una consapevolezza dei rischi che corriamo e di una visione a lungo termine che oggi latitano.
Alla prossima!