Cosa dire dei cedri raccolti in Sudafrica, la cui polpa viene spedita in Israele, le bucce in Cina e poi ve li mangiate gelati sulle spiagge italiane pensando siano siciliani? Una stranezza. E cosa dire dei milioni di container appesi al conflitto dai dazi di Trump? Un dramma, che ci arriva in testa tra poco.
Tutta la logistica funziona sul principio dell’efficienza: pochissimi marinai conducono le navi, moltissimi robot ed operai sottopagati caricano e scaricano tonnellate di pallet, pacchi e pacchetti. Obiettivo di tutti è minimizzare il costo, e per far questo la pianificazione è fondamentale. Alcuni di voi l’hanno vissuto con la Felpa Zafferano (ce ne sono ancora a magazzino, se volete compratela qui): il corriere ha avuto la certezza della consegna ed ha messo la felpa con altri prodotti, in modo da spendere il meno possibile.
Da due secoli a questa parte i migliori matematici lavorano su algoritmi di previsione e di ottimizzazione logistica, più recentemente con soluzioni software e di intelligenza artificiale, per minimizzare i costi garantendo un accettabile livello di servizio. Poi arriva Trump, ti mette le tariffe su ogni ben di Dio, cambia idea ogni due per tre, e la catena logistica si pianta. L’incertezza non si sposa con la logistica.
All’annuncio del Presidente, i committenti americani hanno annullato gli ordini ancora non spediti dalle fabbriche mondiali, specie quelle cinesi. Questo ha significato riempire porti e parcheggi di merci pagate, ingolfando le spedizioni. Dalla Cina ci hanno spedito 200.000 container vuoti, per far spazio nei loro porti. A metterli in fila fareste circa 1.600 chilometri, guidando da Palermo a Malaga, o a Stoccolma se preferite.
La navigazione da Cina ad America richiede circa un mese, il doppio di quella atlantica, ed i container in transito non sono soggetti ai dazi, ma i successivi si. Gli approdi di fine aprile sono in linea con quelli di un anno fa, ma le prenotazioni delle nuove tratte sono calate del 45%, ed il costo a container è già sceso di $1000 per invogliare i committenti. Una ditta svedese, che doveva consegnare macchinari a fine maggio, ha annunciato un ritardo a fine ottobre, e gli esempi di ritardi simili sono migliaia.
Il crollo della catena logistica non è immediato, ricorda quello di una valanga: all’inizio scivola un po’ di neve, ma alla fine a valle ne viene un finimondo. Per ogni mancata consegna o ritardo, questo consumatore o quell’azienda devono trovare un’alternativa, o piantarsi anche loro, passando dal rallentamento e poi allo stop di tutta l’economia. Con le tariffe che impattano tutti i paesi del mondo ed ancora cambiano in corsa, è improbabile che molte aziende corrano ad aprire fabbriche in America; un esercizio che comunque richiede anni, non giorni.
Chi si farà più male prendendo container sulla testa: i fabbricanti che non riescono più ad esportare o i consumatori cui mancano i prodotti? Il governo cinese ha chiamato a rapporto i rappresentanti di Walmart, che volevano costringere i fornitori locali ad assorbire il costo dei dazi. Lo Stato ha ordinato l’immediato annullamento della richiesta: gli stranieri non possono mettere sul lastrico le loro aziende. Probabilmente è nella differenza statalista-liberista che vedremo chi rinuncia per primo al conflitto commerciale, ma i $100 miliardi che Trump ha messo a budget per la difesa non depongono a favore di una risoluzione pacifica. Che ne dite di un’altra guerra? India e Pakistan sarebbero un guaio, ma se America e Cina iniziassero a spararsi, la cosa si farebbe brutta.