I dati hanno un valore, ma esistono dati non fruibili e non valorizzati: i nostri ricordi e soprattutto quelli delle persone anziane, quelle meno use al digitale. Come dar valore a quei ricordi?
Una prima possibilità è offrire alle persone anziane un interlocutore umano, magari un giovane adeguatamente formato che porti loro insieme all’evangelizzazione digitale necessaria nell’era della telemedicina, anche un’occasione di dialogo per registrare ricordi che rischiano di perdersi per sempre. Questo non serve solo a un popolo per mantenere solide radici identitarie, ma anche a uno Stato per impostare meglio, da una prospettiva storica, migliori strategie di sviluppo e servizi sociali più mirati. Iniziative come i Granai della memoria di Davide Porporato e Piercarlo Grimaldi (3000 interviste a contadini, operai, artigiani, imprenditori, partigiani, ecc.) potrebbero essere moltiplicate in una pratica istituzionalizzata a livello nazionale. Il tutto rigorosamente dietro consenso, nel rispetto della privacy e con valorizzazione economica dei dati secondo quello che l’amico Maurizio Ferraris definisce webfare.
Esiste però un’alternativa offerta dall’intelligenza artificiale generativa, quella che parla il nostro linguaggio. Le migliori tecnologie digitali di traduzione del parlato in testo, di identificazione delle emozioni dal tono vocale e delle espressioni facciali che accompagnano la narrazione, e di interrogazione proattiva basata su un large language model alla Chat-GPT, potrebbero parimenti assolvere al compito.
Posto che la visita di esseri umani è notoriamente di conforto e indispensabile, specialmente nel caso di affetti da malattie (oncologiche, epilettiche, degenerative, ecc.), l’amica antropologa Cristina Cenci mi ha ammonito che non necessariamente le persone anziane potrebbero dialogare più facilmente con un simile in carne e ossa, piuttosto che farlo in totale autonomia con un surrogato digitale.
Perché?
L’alleato digitale non giudica, neanche nell’inconscio che per altro non possiede. Non si stupisce di nostri errori o colpe. È lì per noi, quando vogliamo, fedele e nostro, se ben protetto sotto il profilo della security informatica.
Più complesso aprirsi con un simile, persino con un medico per corredare con racconti su come ci si sente, a corredo di dati misurati dai sensori della telemedicina. Tutto questo non tanto per l’effetto homo hominis lupus (gli interlocutori vengono in questo caso chiaramente in pace), quanto per barriere emotive e psicologiche. Temiamo il giudizio altrui, abbiamo difficoltà a fidarci, a coinvolgere altri nella nostra dimensione più intima.
Anche per questo sono convinto che presto avremo un alleato digitale al nostro fianco, ma ci arriveremo passo passo nelle prossime puntate di Tecnosofia. A presto!