Che cos’è successo finora l’ha raccontato man mano su queste colonne Roberto Dolci. Se dovessimo riassumere la campagna dalle primarie fino all’imbarazzante prova di Biden in TV che ha portato alla sua esclusione dalla corsa, e poi dall’attentato a Trump (uno dei tre tentativi) fino alla candidatura di Kamala Harris, con la sua crescita e il suo declino, potremmo portare a casa alcuni punti importanti anche per noi abitanti della provincia dell’impero.
Il primo dato è l’estrema polarizzazione. È uno dei portati della rivoluzione digitale, forse l’unico ormai accertato da tutti gli analisti. Il fatto di poter dire e ascoltare tutto di tutti fa sì che le posizioni si determinino reciprocamente e quindi che si formino schieramenti perenni. Tutto ciò riguardava un tempo solo i politici, che battagliavano sui giornali cartacei, mentre ora accade a tutti con tutti sui social.
Il secondo dato è che i due candidati del Paese più importante del mondo sono paradossali. Di Trump sappiamo ormai tutto: l’età avanzata, il linguaggio rude, i processi, le frodi, le responsabilità sul famoso e oscuro assalto al Campidoglio dei suoi supporters. Harris è stata accolta dai media con entusiasmo ma presto ha fatto capire i motivi per cui l’establishment democratico l’aveva isolata per tre anni e mezzo e, poi, solo a stento appoggiata di fronte all’inevitabile (ricordiamo il significativo silenzio di Obama per alcuni giorni prima dell’endorsement). Harris fa fatica a tenere una posizione politica ferma, non riesce quasi mai a rispondere a domande su economia, sicurezza, cultura, ma è in difficoltà anche su domande personali. È eccessivamente preoccupata di piacere a tutti e, purtroppo per lei, si vede. L’unica cosa sicura è che ce l’ha molto con Trump. Data la situazione, il riassunto del Papa sul votare “il meno peggio” rende forse bene l’idea.
Il terzo dato è che il consenso della “bene” per i democratici non è più così univoco. Il grande colpo è venuto da Elon Musk, sicuramente figlio della rivoluzione digitale, del progressismo e del CEO-capitalism descritto da Riccardo Ruggieri. Il suo appoggio esplicito a Trump è stata una novità inaspettata. Ma anche il non appoggio esplicito a Harris del Washington Post di Jeff Bezos, una delle testate storiche del giornalismo democratico, è risultato molto significativo, come quello dell’ultimo rampollo della famiglia Kennedy. Inoltre, l’asimmetria delle posizioni dei candidati sulle due grandi guerre in corso (delle più di 50) in Ucraina e Israele ha fatto incrinare l’assolutezza delle prese di posizione: molti pacifisti vedono in Trump un atteggiamento più promettente di quello di Harris.
Quest’ultimo dato introduce una riflessione più generale. La cultura iper-progressista, la cosiddetta cultura woke, è in declino, vinta non tanto da qualche proposta culturale migliore ma dai danni in economia (sicuri) e da quelli alla sicurezza (effettiva o percepita poco importa) oltre che dalle proprie infinite auto-contraddizioni. Queste elezioni fanno ripartire una questione culturale: quale cultura vogliamo per l’Occidente nel prossimo futuro? Il fallimento woke sembrava finora avere solo l’alternativa di un conservatorismo duro in cui certamente Musk o Bezos non si potevano ritrovare. Cambierà qualcosa nel futuro?
Qui si inserisce l’ultima considerazione generale. Né Harris né Trump altereranno il quadro generale del mondo: gli Stati Uniti si propongono come garanti dell’ordine uscito dalla seconda guerra mondiale, Israele incluso. Nessuno dei due mette in discussione questo assetto, che invece è stato attaccato frontalmente alla riunione dei BRICS della settimana scorsa. Probabilmente non saranno i prossimi 4 anni di presidenza americana a vedere nascere un altro ordine o una guerra per la supremazia, perché la Cina e i suoi alleati non hanno ancora consolidato le alleanze e non hanno ancora la produzione bellica degli Stati Uniti. Ma ciò che avverrà nei prossimi 4 anni dirà come l’Occidente arriverà all’appuntamento con un confronto che sembra a oggi inevitabile.