Pensieri e pensatori in libertà


Asterix e la banalità del linguaggio

A volte anche i fumetti fanno riflettere, soprattutto quando sono di alto livello artistico. Così oggi, nella rubrica del pensiero, ci occupiamo di Asterix e l’iris bianco, l’ultimo volume della celebre serie, scritto da Fabcaro e disegnato per la settima volta da Didier Conrad. È stata una buona strategia degli eredi degli inventori del banda gallica, Goscinny e Uderzo, quella di aver permesso ad altri, qualificati e selezionati, di continuare le avventure del villaggio che resiste a Cesare. 

Asterix, infatti, è l’icona e il simbolo di tutte le minoranze creative, quelle che resistono al potere di ogni genere – incarnato fumettisticamente da Roma – senza perdere ironia, buonumore e speranza.

Nell’ultimo episodio, la cui scrittura per la prima volta tocca il livello dei fondatori, i romani cercano di piegare la resistenza del villaggio con una nuova arma: il pensiero positivo. Il maître à penser inviato per corrompere i galli nel pensiero assomiglia a Bernhard Henry Levi, anche se poi lo sceneggiatore ha dichiarato che si tratta di una parodia di Paulo Coelho. Forse, più profondamente, il pensiero positivo è quello spacciato dall’inizio degli anni ’90 da Martin Seligman nel suo Imparare l’ottimismo. Come cambiare la vita cambiando il pensiero. In realtà, però, ciò che il fumetto rappresenta è qualsiasi maestro di vita che cerchi, in mala fede e per arrivismo personale, di modificare i comportamenti e le tradizioni attraverso la manipolazione delle parole. Nell’Iris bianco i poveri galli tradizionali, abituati a cinghiali, mangiate, risate e zuffe tra loro e con i romani si trovano manipolati da frasi banali ma altisonanti. “Il vero nemico è dentro di noi”, “la paura non evita i colpi”, “dietro le nuvole c’è sempre un po’ di azzurro”, “non conta il numero dei colpi che prendi ma il numero di colpi che puoi incassare”, “chi combatte può perdere ma chi non combatte ha già perso”, “il problema non è il cadere ma come si cade”, “esprimi ciò che sei” e via discorrendo. Incantati dalle parole, i galli diventano politicamente corretti e noiosissimi, incapaci di dare dei giudizi su bene e male, amico e nemico, bello e brutto finendo così come i galli raffinati e asserviti di Lutetia (Parigi). Ovviamente, Asterix e i suoi più fidi lotteranno per uscire dall’allucinazione, ma chiedendosi spaventati per tutto il tempo come sia possibile che tante persone si facciano completamente subornare da frasi strampalate.

Anche il modo di uscire dalla situazione è interessante, ma non ve lo posso anticipare. Qui mi sembra importante, però, ricordare una delle questioni più tipiche della contemporaneità, che si trova nello sfondo della bande dessinée più famosa di Francia: sono le parole che creano la realtà o è la realtà che forgia le parole? Si è molto dibattuto su questo tema nel Novecento e la questione del politicamente corretto degli ultimi quindici anni è stata frutto anche di una filosofia che ritiene che il modificare le parole basti per modificare ciò che è sbagliato. La parabola di ciò che avvenuto ha mostrato che, una volta innescato il meccanismo, invece che liberazione si creano uniformità di costumi, superficialità di pensiero, discriminazione al contrario di chi continua a pensare che realtà e tradizioni non si possono mutare se non naturalmente. Infatti, più profondamente, ciò che abbiamo capito dalle avventure del mondo reale è che la parola nasce dalle cose e con esse deve mantenere un nesso per rimanere viva. Quando si stacca dalle forme di vita e dai loro significati intrinsechi diventa arbitraria e violenta, come la lingua di tutte le ideologie. Qui Asterix prende in giro, con intelligenza, le ideologie contemporanee, che creano i piccoli totalitarismi del pensiero. Ma la realtà è testarda – come diceva Bulgakov – e i galli torneranno a esser galli, scorretti ma liberi, almeno per questa volta.


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