La pietra è stata tirata a un essere umano, a una persona con una vita e una storia, ed è stata tirata da un essere umano, con una storia e con una coscienza libera, cioè responsabile. Non è stata la società a tirare la pietra, e nemmeno la disuguaglianza, l’ingiustizia sociale, l’urbanistica, le condizioni economiche, il disagio psicologico con cui spesso questo genere di atti viene giustificato.
Ciò che non mi aspettavo è che mi scrivessero in tanti, di ogni estrazione sociale, per ringraziarmi. Si tratta di un pensiero semplice ed evidente: siamo liberi e quindi responsabili di quello che facciamo. Eppure sembra qualcosa di nuovo e controcorrente. Come mai? Il fatto è che siamo stati rovinati da eccessi culturali otto-novecenteschi che hanno indebolito i concetti di persona e libertà. Il marxismo ci ha spiegato che ciascuno di noi è il frutto delle strutture economiche e sociali. Lo psicologismo ci ha detto che ciascuno è determinato da come è stato educato. Infine, il genealogismo nietzscheano ci ha convinto che i valori personali sono sempre maschere imposte dalla società. Dunque, se noi non siamo che l’esito di ciò che ci precede, qualunque cosa accada non è mai responsabilità nostra ma di antecedenti che non possiamo controllare.
Forse occorrerebbe bilanciare questi insegnamenti, che hanno avuto anche i loro meriti, con altri autori. Suggerirei, per esempio, in campo socio-politico, la lettura di Alexis de Tocqueville, Hannah Arendt e Vasilij Grossman, autori che hanno cercato di combattere l’astrattezza di ogni ideologia basandosi sulla forza della libertà umana personale e concreta. Quest’ultima vive solo nella consapevolezza della propria unicità e assolutezza, e nella relazione con altre persone, di cui si sente responsabile. In questa responsabilità, cioè nel rispondere a qualcuno di qualcuno, la libertà trova la propria soddisfazione.
Oltre alla necessità di correggere la nozione di libertà, però, i numerosi messaggi di apprezzamento fanno capire anche qualcos’altro: il buon senso è molto più diffuso di quanto non si pensi. E, d’altro canto, poco si esprime perché ha paura delle folle e dei loro intellettuali. Spesso, infatti la cultura effettiva, quella del buon senso o del realismo, è questione di coraggio più che di grande originalità. Ci vuole coraggio per dire ciò che è evidente. Ma basterebbe anche il coraggio di ammettere di aver sbagliato a non dire, a non intervenire, a far finta di non vedere e non sapere. Eppure, si sa, non è così facile perché, come dice don Abbondio al cardinale Borromeo, “il coraggio, uno non se lo può dare”.
È interessante vedere nel capitolo XXV dei Promessi Sposi la risposta del cardinale, ma intanto sarebbe già un guadagno ricordarsi che quello del coraggio è uno dei temi più importanti e più trascurati del pensiero morale.