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Politica industriale al cambio di testimone

Ricorderete che all’elezione di Biden sottolineai le poche differenze e tante similitudini tra lui ed il predecessore Trump, ed ora che questo torna alla Casa Bianca, sarà interessante vedere cosa succede alla politica industriale. Fu il Donald a spingere con forza il “prodotto in America”, solo aggiustato in “comprato in America” dal successore. Come per la risposta al Covid, che portò entrambe a stampare ed elargire duemila milioni di dollari per sostenere l’economia in quegli anni deprimenti, anche sulla spinta a costruire fabbriche, investire nelle nuove tecnologie e portare investitori esteri in America, non si vedono differenze tra i due Presidenti.

E la loro politica industriale funziona. Se prendiamo il Chip Act, con cui l’amministrazione democratica ha continuato a spingere le aziende elettroniche a costruire fabbriche e fare ricerca sui nuovi chip, vediamo che ai $40 miliardi versati dallo stato ne sono seguiti altri $450 da parte dei produttori e degli investitori privati. Quando metti quasi $500 miliardi in un settore industriale, stai dando un doping da cavallo, occorre poi stare attenti a non trovarsi cattedrali nel deserto.

Trump ha già messo le mani avanti: a parte le boutade di comprare o invadere tutti i paesi attorno agli USA, che si trasformeranno in concessioni commerciali da parte delle controparti terrorizzate, il futuro Presidente sta promettendo sanzioni a pioggia per riequilibrare la bilancia commerciale, specie con la Cina. Sa che le più grandi banche ed aziende americane hanno continuato a lavorare in Cina senza sosta, e con notevoli profitti. Mentre l’Italia si preoccupava di chiudere la Via della Seta e di non offendere il padrone, le multinazionali americane han continuato a lavorare bene. Se Trump ora rende più difficile esportare dalla Cina, e molto più conveniente produrre a casa propria, saranno tutti felici di tornare in America.

Personalmente considero sanzioni e sovvenzioni dei boomerang, che volano bene all’inizio ma hanno la brutta abitudine di tornare in testa a chi li lancia, se non è bravo. L’abbiamo visto con Huawei, all’inizio bastonata nel non avere più la tecnologia necessaria per i chip, fino a quando ne ha fatti di propri con performance all’avanguardia e costi decisamente inferiori dei precedenti. Quelle bastonate iniziali adesso si riversano con gli interessi su Apple, che in Cina deve scontare oltre misura e continua a perdere clienti.

Il pericolo delle sanzioni lo vediamo anche con l’Inflaction Reduction Act (IRA) che in America ha aiutato il settore delle rinnovabili, dalla produzione di energia alle auto elettriche: molti hanno paura in questo istante, visto che Trump è appassionato di estrazioni petrolifere e macchinoni a benzina, ed ha già promesso limiti su quegli incentivi. L’amico Musk, che ha un prodotto ed una tecnologia d’avanguardia, è ben contento di questa riduzione, perché lui ne guadagnerà in competitività. Lo stiamo già vedendo in Europa, dove Tesla farà da capofila di una mandria di concorrenti impantanati sull’elettrico, che per non pagare multe ad una burocrazia totalitaristica preferiscono pagare $1 miliardo a Musk per comprare crediti CO2. Con buona pace di Greta.

Il Chip Act non teme rallentamenti, perché non ci sono tecnologie concorrenti: o migliori i tuoi chip su cui far girare intelligenza artificiale e sempre più dati, e magari costringi i tuoi alleati a rifornirti da te, o continui a comprarli dall’estremo oriente. Il va sans dire. E cosa può fare l’Italia in termini di politica industriale? Se concorrere su chip, clean-tech o vettori satellitari è ostico, abbiamo comunque forti eccellenze nel campo della meccatronica, e laureiamo sempre dei bravi sviluppatori che fanno bene con software ed intelligenza artificiale in tanti ambiti applicativi. È chiaro che finche’ paghiamo noccioline, troppi ragazzi continueranno ad emigrare per lavori veri, non da scimmie al circo.

Serve una sveglia, un drindrin come si vede in rete, per fare in modo che il settore pubblico non sprechi soldi in PowerPoint e prototipi nel cassetto, ma utilizzi davvero le innovazioni delle start-up e degli spinoff delle nostre università. Qui a Boston il Roomba che vi pulisce i pavimenti è il figlio di un progetto della difesa per sminare i campi, e la stessa fecondazione pubblica si applica a GPS, risonanze magnetiche, nastro adesivo, e tant’altro ancora. Lo stato può essere catalizzatore dell’innovazione, basta pragmatismo al posto di proclami e burocrazia.

Detta male, se usiamo fondi pubblici perché i giovani creino nuove tecnologie e prodotti che vengono usati per davvero, poi questi scaleranno nel mercato, e la politica industriale e bell’e fatta.

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Zafferano

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