Pensieri e pensatori in libertà


Maglie, squadre e corpi intermedi

Alle volte persino il calcio può far pensare. Venerdì scorso, 3 maggio, vado a vedere la stanca partita di fine campionato Torino-Bologna. La partita è soporifera come la maggior parte nel calcio post-moderno: infiniti passaggi, più all’indietro che in avanti, qualche rara occasione da goal, atleti lamentosi e fragili. Finisce 0-0 tra i fischi sonori dei tifosi di casa.

Sabato, 4 maggio, però, è l’anniversario del Grande Torino, memoria della tragedia calcistica italiana per eccellenza. I tifosi del Toro compaiono in 10000 al santuario di Superga, sul cui campanile si infranse l’aereo dei campioni d’Italia. Rito solito di messa, lettura dei nomi dei caduti al sacrario, applausi e bagno di sfumature di granata. Nell’evento, i calciatori e la dirigenza vengono a lungo applauditi e abbracciati dalla folla.

In un video apparso sulla rete, ripreso dal pullman dei calciatori, un ignoto pedatore del Toro guarda la scena dei tifosi e domanda sarcastico a un compagno di squadra: “ma questi non sono gli stessi che ieri sera ci hanno fischiato?”.

È ovviamente scoppiato un caso sui social, ma la domanda in effetti è buona e ci serve a capire che cosa è il tifo e quanto sia affare più serio di quanto non sembri. I tifosi si legano a una squadra identificandosi in certe idee o valori che, a seconda delle interpretazioni, sono lì nelle cose o essi vi proiettano. In ogni caso, è a quell’idea o a quell’insieme di valori collettivi – spesso simili tra le varie squadre – che fanno riferimento. Così i calciatori vengono fischiati il venerdì sera per aver giocato in modo poco corrispondente a quelli che sono ritenuti i valori collettivi di quella squadra mentre vengono applauditi meno di 24 ore dopo perché, partecipando al rito di Superga, onorano quegli stessi valori. È l’idea di “maglia” e di “fedeltà alla maglia”, che riguarda ogni squadra di qualsiasi sport, visto o giocato. In questo caso è più chiaro perché la squadra compie anche un evento non calcistico.

Il filosofo americano Josiah Royce vedeva in questo tipo di fedeltà sportiva, soprattutto quando si è giocatori partecipanti, un segno della più generale attitudine fondamentale alla fedeltà che è il cuore morale della vita. Tanto più le cause sono alte, tanto più la fedeltà è richiesta. Anzi, Royce in quest’ottica pensava che le cause perse fossero le più degne di essere vissute perché dimostrano che la fedeltà è virtù unica e disinteressata che lega a un bene più grande di quelli finiti e instabili dell’esistenza.

Così il caso buffo dello sport e del tifo introduce alla vorticosa serie di domande sugli ordini e tipi del bene che, dal calcio a Dio, mostrano che non siamo fatti solo per noi stessi. In fondo, squadre e tifosi - con le loro formazioni giovanili - sono un corpo intermedio che un po’ argina il solipsismo e l’individualismo narcisista delle nostre società. Speriamo che non li facciano sparire o che non li rieduchino eccessivamente.

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In questo numero hanno scritto:

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Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
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