Tanto per farla semplice, i primi sono, per esempio, quelli sempre impegnati nel fare qualche cosa e che fanno fatica a dare del tempo a sé stessi. I secondi quelli che starebbero sempre solo con sé stessi perché trovano che gli altri siano un impedimento a quel piacere. Jung poi complica molto la classificazione inserendo i tipi che vivono il loro essere introversi o estroversi principalmente nel pensiero, nella sensazione, nella percezione, nell’intuizione. Così si formano varie tipologie interessanti, anche al di là della pratica terapeutica. Si può divertirsi a utilizzare queste funzioni per capire un po’ di più se stessi, gli altri e i vari personaggi della storia del mondo. Jung stesso fa un’analisi di vari personaggi storici: Nietzsche era un introverso intuitivo, Agostino un introverso intellettuale, Origene un estroverso sensitivo. S’intende che si tratta appunto di tipi prevalenti, di strumenti per capire sé e il mondo e non di definizioni ontologiche. In ciascuno ci dovrebbe essere un po’ di tutto.
Non solo. Per Jung, il pericolo è proprio se uno vive un solo tipo, se uno ha un solo lato. Non un lato prevalente ma un lato unico, che rischia sempre di essere violento o rovesciarsi violentemente nel suo opposto. La terapia dovrebbe proprio cercare di equilibrare i poli e da lì si entra nei meandri della pratica, che sono troppo seri e delicati per essere affrontati qui.
Qui invece ci interessa qualcosa che Jung accenna soltanto, cioè il fatto che tutto ciò si applica anche a un giudizio culturale generale sulla nostra società. Secondo Jung, l’era razionalista nata con l’illuminismo rischia di far esplodere il suo inconscio nascosto in maniera scomposta e violenta proprio perché esso è sempre represso ed escluso dalla concezione di ragione. È questa forse una delle spiegazioni delle barbarie dei totalitarismi, la cui violenza estrema può essere spiegata dall’eccesso di fiducia nel razionalismo di fine ottocento-inizio novecento.
Chissà che cosa direbbe ora il grande psicanalista? La sua intuizione parrebbe applicarsi su una scala molto più globalizzata e con una diffusione capillare molto diversa. Abbiamo una società dove allo stesso tempo prevale l’assoluta fiducia nel controllo scientifico di tutto – dalle previsioni del tempo ai passi del giorno, dalla malattia personale alla pandemia globale – e il narcisismo individualista più estremo, che si manifesta nel culto della propria immagine, nella rigidità assoluta dei gruppi e delle opinioni, nello spazio dato a ogni realizzazione di desiderio individuale staccato dal resto della società e del bene comune. Siamo nello squilibrio più assoluto: idolatria della tecnologia e, allo stesso tempo, idolatria di sé stessi. Il massimo dell’estroversione con il massimo dell’introversione. E spesso, la reazione spaventata a tutto ciò è una negazione di entrambi i lati, che non fa che confermarne l’assoluto potere. Una società equilibrata dovrebbe cercare di unire questi due aspetti, in un’unità sinfonica. Solo che per ottenere una sinfonia, bisogna almeno avere uno spartito decente e un direttore non dittatore. E ciò, purtroppo, non si può costruire con una lunga analisi di massa. Al proposito, forse aveva ragione il filosofo americano MacIntyre che concludeva la sua opera Dopo la virtù del 1981 dicendo: “Questa volta, però, i barbari non aspettano di là dalle frontiere: ci hanno già governato per parecchio tempo. Ed è la nostra inconsapevolezza di questo fatto a costituire parte delle nostre difficoltà. Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro san Benedetto, senza dubbio molto diverso dal precedente”.