Pensieri e pensatori in libertà


Perché le ideologie non possono amare la storia

Sul Telegraph della scorsa settimana è apparso un articolo di Oliver Dowden, ministro della cultura del Regno Unito, sulla celebre cancel culture, termine generale con cui ora – speriamo per poco – si definisce la cultura che vuole rivedere in senso giusto e progressivo la storia, la lingua, l’educazione. Dowden si concentra sull’ennesimo episodio di tale revisione. All’Università di Liverpool, spinti da un gruppo di studenti attivisti, gli accademici hanno deciso di rimuovere l’intitolazione... 

... di un edificio a William E. Gladstone, primo ministro inglese (1892-1894), perché la sua famiglia possedeva degli schiavi. Agli attivisti non è bastato che Gladstone fosse esplicitamente contrario alla schiavitù e che non possedesse schiavi. Se sei figlio di uno schiavista, devi essere per forza uno schiavista. Giustamente, Dowden indica come maoismo questa ricerca del nemico oggettivo, il nemico che è tale per quello che è non per quello che fa o dice. È l’antica storia già vista in tutti i regimi totalitari del Novecento, con gli ebrei, con i kulaki, con gli armeni, con i nobili. Che si ripeta ora, negli Stati Uniti o in Inghilterra, e presto in tutta la sua forza in Italia, mette in luce un meccanismo ideologico interessante. Perché prendersela con la storia? Perché avercela con un passato del quale, nel bene e nel male, si è debitori? E perché non far pace con la propria storia, riconoscendo il bene e il male? Come è possibile che, soprattutto delle persone progressiste e colte come gli attivisti in questione, non riconoscano il valore della storia?

È possibile per via del meccanismo ideologico che si trova al fondo della cancel culture. L’ideologia non tollera mai la storia. Nata da una verità parziale resa assoluta, fino a impazzire, l’ideologia non tollera che le si ricordi da dove è nata e come. C’è sempre un curioso odio del padre dentro le proposizioni ideologiche. Ma l’odio ha diverse motivazioni. Innanzi tutto ricordare la storia significa abbassare le pretese di assolutezza della visione, relativizzare quei valori su cui l’ideologia si innesta rendendoli parte di contesti più ampi e di possibilità di cambiamento: quello che è giusto oggi non lo sarà domani, almeno non nello stesso modo, come adesso ciò che era giusto ieri ci appare sbagliato o parziale oggi. In secondo luogo, la storia ci fa vedere quanto siamo uniti, come esseri umani, venendo da comuni origini: i miei avversari sono anche i miei fratelli. Infine, la storia è pericolosa perché dà armi culturali agli avversari: da dove si prendono le nuove idee? Dal passato, magari dalle vicende non note o minoritarie del passato, o magari da quelle ora scartate. Se io avveleno i pozzi del passato eliminando i riferimenti pubblici, cancellando la memoria o alterandola, anche i nuovi valori e le nuove idee si potranno solo prendere dal presente, cioè dalla stessa ideologia.

Sensatamente, Dowden propone al posto del “maoismo” un “moreismo”, da “more”, che vuol dire “più”: più statue, più intitolazioni, più interpretazioni della storia. Più storia, insomma. Ma è un appello che cade nel vuoto perché il meccanismo anti-storico è al cuore dell’ideologia: rinunciare a esso sarebbe rinunciare all’ideologia stessa.


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In questo numero hanno scritto:

Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro
Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Giovanni Maddalena (Termoli): filosofo del pragmatismo, della comunicazioni, delle libertà. E, ovviamente, granata
Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite