Fin dalla sua prima comparsa sulle scene, Penteo fa mostra di una radicata autoreferenzialità, di una pericolosa intransigenza e di una profonda necessità di conoscere, controllare e dominare una realtà interpretabile solo attraverso le lenti umane. Penteo è ossessionato dal dover definire e riconoscere identità monolitiche, stabili, delimitate da confini precisi. Lui è Penteo, re di Tebe. Dioniso non è un dio. E non è un dio perché Penteo, umanamente fermo alla conoscenza permessa dai sensi e dalla ragione, non può vederlo. Dioniso, dall’altra parte, si fa esempio di una capacità interpretativa del reale che travalica i limiti, le definizioni, le catalogazioni. Queste premesse, seppur, in questo caso, necessariamente ridotte all’essenziale, sono fondamentali alla comprensione del contrappasso al quale Penteo è spinto da Dioniso stesso.
La tragedia euripidea si conclude con la morte di Penteo per smembramento. Prima della lacerazione materiale, tuttavia, prima della frantumazione del corpo, Penteo passa drammaticamente attraverso la ben più profonda frantumazione dell’io. Penteo firma inconsapevolmente l’implosione del proprio mondo autoreferenziale e monolitico quando concede a Dioniso di travestirlo da baccante. Da uomo si fa donna, da estraneo al culto a officiante del rito stesso. Ma nel mondo di Dioniso, nel quale la dialettica tra esteriorità e interiorità è tanto ambivalente quanto pericolosa, travestimento equivale a trasformazione. Nel momento in cui si lascia persuadere da Dioniso a spiare i riti segreti delle baccanti, non solo Penteo si autocondanna a quell’omicidio che troverà proprio nelle baccanti le carnefici, ma rinuncia per la prima volta alla propria (presunta) identità.
Il passaggio successivo, nell’analisi della metamorfosi di Penteo, è la presa di consapevolezza delle caratteristiche della rinnovata versione del re. Se Penteo non è più Penteo, chi è diventato?
È Dioniso stesso a notare che, curiosamente, il Penteo femminile assomiglia alla madre, Agave, baccante. Ancora più curiosamente, Penteo, portato dal dio a rinnegare la propria iniziale iper razionalità, si compiace di questa somiglianza. Penteo, ora sotto gli effetti della follia dionisiaca, è contento di essere diventato Agave. E attraverso la mediazione della figura materna, della quale il re assume la forma invasata, Penteo pare iniziarsi per “contagio mimetico” proprio all’assimilazione con il dio. La metamorfosi di Penteo, dunque, è tentativo di riduzione di quella distanza radicale che ha contrapposto e continuerà a frapporre l’uomo al dio, anche nel momento in cui il primo verrà offerto in sacrificio al secondo. L’assimilazione di Penteo a Dioniso è, infatti, passaggio necessario alla trasformazione del re nel capro espiatorio, surrogato, secondo l’uso rituale, del destinatario del dono. Ma l’imperfetta metamorfosi del re, che, anche in punto di morte, continuerà ad avere una visione solo parziale del dio, è a anticipazione e giustificazione dell’inutilità complessiva e finale dell’intero atto sacrificale.
Per continuare ad esplorare la dimensione mimetica del rapporto tra uomo e dio, occorre considerare anche il punto di vista della stessa Agave, coinvolta come protagonista nell’omicidio del figlio. Nuovamente si parla del nesso tra visione e identità. L’Agave che racconta, ignara, lo smembramento di Penteo è un’Agave delirante, priva del verso senso di realtà. Ai suoi occhi fallaci e posseduti dal dio, Penteo subisce ulteriori metamorfosi che non solo aggravano il suo irrimediabile smarrimento identitario, ma rafforzano il complesso legame di assimilazione che fa dell’uomo una manifestazione del divino.
Nelle parole di Agave, il re di Tebe muore straziato come un leone (v. 1174) e, allo stesso tempo, come un μόσχος (v. 1185), mόskos, con inquietanti caratteristiche umane (vv.1185-1185). Penteo non è più, non è solo uomo, ma anche animale. Per essere ancora più precisi, inoltre, Penteo assume l’aspetto di quelle bestie, il leone e il toro (qui nella variante “vitellino”) che sono tra le tradizionali manifestazioni ferine del dio.
Per concludere, le metamorfosi di Penteo, affermano Vernant e Vidal-Naquet, non sono altro, dunque, che una “sinistra caricatura” dell’epifania divina. Sono annichilimento totale e irreversibile dell’uomo, ma anche, e soprattutto, celebrazione di un Dioniso vendicatore, un Dioniso che sottomette, che distrugge senza concedere la speranza di un’umana rinascita.