Potrebbe rivelarsi, credo e spero, un modo utile per far sì che i lettori della mia rubrica possano conoscere qualcosa di me.
Il titolo dell’articolo reca, tra virgolette, il nome della mia prima silloge poetica, “Graffiti”, pubblicata nel novembre 2023 da Marco Serra Tarantola Editore. Scritte negli anni di passaggio all’età adulta, le poesie di “Graffiti” mescolano una profonda ricezione emotiva e un’attenta analisi del quotidiano a stimoli e spunti suggeriti soprattutto dalla mitologia e dalla letteratura classica. Lo stesso titolo della raccolta allude alla pratica del graffitismo, antecedente materiale del genere antico dell’epigramma, della cui varietà tematica e linguistica e della cui incisività spesso ironica la silloge vuole farsi erede.
Tra i versi della raccolta, così come nella mia vita, il teatro appare tema significativamente ricorrente. In ben 3 dei 35 componimenti si utilizza l’esperienza teatrale come oggetto di descrizione o come strumento di una riflessione dai toni esistenziali. Sperando di suscitare anche solo un briciolo di curiosità in voi lettori, mi accingo ora a dedicare qualche riga a ciascuna delle poesie alle quali ho accennato.
RECITARE. Mi piace pensarla come la poesia della penombra. “Recitare” è una poesia d’amore, forse la poesia d’amore. È la dichiarazione d’amore a una pratica, quella teatrale, che spesso induce a uno smarrimento del sé. Quando si recita è facile cadere nella tentazione di cedere e cedersi troppo, di perdere la propria identità oltre il labile confine che separa la verità dalla finzione. E se smarrirsi risulta certamente inebriante, occorre, però, imparare a ritrovarsi.
ATTO UNICO. “Atto unico” si serve del teatro come metafora. La pratica performativa, della quale si osserva e si utilizza lo strumento del monologo, è resa centrale anche stilisticamente dalla figura etimologica “Recitiamo la/ Recita”. In “Atto unico” si guarda all’atto performativo del singolo come simbolo di una solitudine esistenziale, dell’impossibilità di ricevere una risposta dall’altro e di una comunicazione. La vita, sembrano suggerire i versi, è uno spettacolo senza interruzioni, durante il quale l’attore è destinato a recitare da solo il proprio monologo tragicomico, il proprio atto unico.
A PROSCENIO. Sul tema del confine tra finzione e verità si snodano anche i versi di “A proscenio”, poesia del teatro inteso come terra dell’ambiguo. Tale stato di ambiguità non deriva solo dalla precarietà della separazione tra realtà e immaginazione, ma anche dalla complessità del rapporto che si instaura tra l’Io agens e il pubblico che riceve. Paradossalmente, per un gioco letterario dal gusto quasi alessandrino, lo stesso tema, il teatro, ricorre in “Atto unico” e in “A proscenio” con significati opposti: se nella prima poesia il dialogo non c’è, ora si incoraggia la condivisione. Se il proscenio è fisicamente il luogo migliore per mostrarsi e, attraverso il mostrarsi, per inebriarsi della propria persona, in un attimo senza tempo, esso è anche spazio dell’incontro, punto fisico più adatto allo scambio con l’altro. Nel proprio mostrarsi, infatti, si impara anche a darsi all’altrui vista, a raccontarsi, a mettersi in luce perché siano gli altri a guardare, ad accogliere. Il teatro di “A proscenio”, diviene anche, dunque, metafora dell’umana necessità di armonizzare e integrare l’Io con ciò che all’Io è esterno, con ciò che è mistero.