... potere e giustizia. In una recensione (ItaliaOggi, 18 marzo) ho cercato di dare conto del modo in cui viene affrontato dall'autore. Di seguito mi limito ad aggiungere un paio di considerazioni.
Non vi è stato autentico pensatore liberale che non abbia avvertito il problema della relazione tra libertà e legge. Un problema sintetizzabile, molto schematicamente, nell'esigenza di evitare i due estremi di una legge senza libertà o di una libertà senza legge. In altri termini, di un potere assoluto o di un'assoluta anarchia, di una legge che soffoca e decide paternalisicamente la libertà o di una libertà senza vincoli che rischia di distruggere condizioni basilari della convivenza civile (un dilemma che si è riproposto con forza nel corso della pandemia, spaccando l'opinione pubblica). In questo quadro, il problema della libertà umana si configura non solo come problema di "libertà sotto la legge", ma anche come problema di "libertà dalla legge". E cioè di superare, di andare oltre la "legge" (la tradizione, l'autorità, un paradigma scientifico, la consuetudine e, perfino, l'ordine costituzionale) quando essa non sia ritenuta più giusta o giustificabile, vale a dire legittima.
Se nel Processo di Kafka è il meccanismo inesorabile e oscuro della legge che rende assurda e tragica l'esistenza, nel Processo di Ruggeri è il sistema di potere guidato dagli amministratori delegati delle più grandi aziende del mondo (Ceo Capitalism) che schiaccia l'individuo nel labirinto claustrofobico di "regole del gioco" parimenti asfissianti e anonime. Il tribunale di Joseph K. cerca la colpa più che il colpevole, ma il suo destino è segnato. Il tribunale di Achille K. gli offre una via d'uscita, ma egli la rifiuta e preferisce confessare un reato che non ha commesso. Cos'è questa, in fondo, se non una forma risoluta di disobbedienza e di contestazione del potere?
A questo punto, la domanda è quella di sempre: perché il potere ha consenso? Di primo acchito, la risposta di Carl Schmitt sembra la plausibile: “in certi casi per fiducia, in altri per paura, a volte per speranza, a volte per disperazione” (Dialogo sul potere). Secondo il giurista di Plettenberg gli uomini hanno bisogno di protezione, e cercano questa protezione nel potere. Il legame tra protezione e obbedienza è per lui l’unica spiegazione del potere. Chi non ha il potere di proteggere qualcuno non ha nemmeno il diritto di esigerne l’obbedienza. Viceversa, “chi cerca protezione e la ottiene non ha il diritto di negare la propria obbedienza”. Il potere ha una logica interna che va al di là di chi lo esercita: “è più forte di ogni volontà di potenza, più forte di ogni bontà umana e, per fortuna, di ogni umana cattiveria”. Il potere, insomma, non ha identità, ma produce identità, quella per il cui riconoscimento servo e padrone si affrontano nella hegeliana Fenomenologia dello spirito.
C’è qualcosa di tragico in questa visione. Quando Schmitt concepisce il suo pamphlet (1954), il potere veniva già identificato da Martin Heiddeger con la “gabbia della tecnica”, con la capacità di ridurre gli uomini a "piccoli funzionari" dell’apparato globale. Tuttavia, il pensiero di Schmitt si discosta non poco da quello del filosofo di Essere e tempo, di cui era buon amico. Il titolo esteso del Dialogo recita, infatti, Sull'accesso a coloro che lo detengono. Il problema del potere è cioè quello di come sia possibile entrarvi in contatto. Partendo dall’affermazione che “ogni potere diretto è sottoposto immediatamente a influenze indirette”, la sua conclusione è che “non esiste alcun potere senza questa anticamera, senza questo corridoio” (nel 1890 Bismarck si dimise quando l’imperatore Guglielmo rifiutò il preventivo assenso del cancelliere sui suoi ospiti a corte).
L’essenza del potere viene insomma solo adombrata, ma non enunciata esplicitamente.La condizione dell’uomo schimittiano di fronte al potere somiglia a quella del campagnolo della novella di Kafka Vor dem Gesetz (pubblicata nel 1915 e poi inserita nel romanzo Il Processo), che attende invano di poter varcare la porta della legge (Gesetz), perché un custode -da cui viene soggiogato- glielo impedisce. Analogamente, per il teorico dello “stato d’eccezione” davanti alla porta del potere c’è sempre “un’antichambre”, a cui prima bisogna accedere per poterla varcare. Ciò significa che del potere non vediamo mai il volto, ma soltanto la sua immagine riflessa nello specchio della storia, della lotta per la sua conquista. D’altronde, l’idea che il potere vero stia “altrove”, che sia invisibile e remoto ancorché influentissimo, ancora oggi è largamente diffusa. "Oggi dovremmo aggiungere -annotava profeticamente Hannah Arendt già nel 1969- la più recente e forse più formidabile forma di dominio: la burocrazia o il dominio di un intricato sistema di uffici in cui nessuno, né uno né i migliori, né i pochi né i molti, può essere ritenuto responsabile, e che potrebbe [...] essere definito come il dominio da parte di Nessuno" (Sulla violenza).
In un passo delle Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij (Dostoevskij e Kafka sono scrittori indissolubilmente legati), il protagonista, l’uomo-topo, afferma: "[…] per quanto la rigiri, alla fin fine vien sempre fuori che il principale colpevole di tutto sei sempre tu, tu e nessun altro, e -quel che fa più male- colpevole senza colpa e, potremmo dire, per legge di natura". Siamo tutti colpevoli. In un'epoca in cui la verità non ha più senso da quando la menzogna è diventata così a buon mercato, siamo tutti Josef K. e Achille K.