... il taglio di un anno di scuola superiore e l’aumento di un anno universitario in seguito al (previsto) abbassamento di livello dei diplomati (processo di Bologna, strategia di Lisbona).
Lo scopo dichiarato di tali provvedimenti (mai apertamente discussi con gli elettori) non è avere buoni laureati, ma laureati ‘medi’, laddove la miglior formazione è concentrata in poche sedi superfinanziate. Le altre vedranno progressivamente diminuire le risorse e quindi le cattedre di prestigio, limitandosi a erogare un servizio di base (modello ‘superliceo’).
Le Leggi Moratti (230/2005) e Gelmini (240/2010) hanno demolito la figura del ricercatore a tempo indeterminato che, senza necessariamente accettare la progressione di carriera e quindi oneri didattici, poteva dedicare la vita alla libera ricerca. In parallelo l’università subiva un brusco, sistematico e finora inarrestabile taglio dei fondi.
Con la Legge Gelmini sono state inoltre abolite le facoltà, che esistevano in Italia da secoli, e introdotti i dipartimenti e le scuole, come in USA: il faticoso processo di demolizione e ristrutturazione ha generato divisioni, dissidi, entità improbabili e un enorme assorbimento di energie burocratiche e intellettive che si traducono in impegni non più attinenti a didattica e ricerca.
La nuova università si basa sul presupposto della mercificazione del sapere e dello sfruttamento del precariato. Trattata come azienda, essa si pone obiettivi che vengono ottenuti non attraverso imposizione palese e diretta, bensì attraverso uno strumento potentissimo, il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), che viene aumentato o diminuito su base premiale, ovvero sulla capacità degli atenei di adeguarsi alle richieste ministeriali, per esempio aumentare gli iscritti per ‘competere’ con altri atenei epperò, contemporaneamente, disincentivare gli abbandoni e i fuoricorso.
Per aumentare gli iscritti (un problema abbastanza drammatico in una quadro di declino demografico inarrestabile del nostro paese) vengono istituiti corsi di laurea nuovi e allettanti con materie di richiamo (in genere televisivo-mediatico), p.es. corsi in cui si insegna storia di genere e femminicidio, protesi robotiche, gestione informatica dei beni culturali e simili.
Nel contempo, per evitare gli abbandoni, i vertici universitari fanno da tramite perché i docenti recepiscano le direttive del MIUR: evitare troppe bocciature, far accettare agli studenti voti molto bassi (tanto il percorso del triennio non fa media con quello del biennio), diminuire il carico didattico dell’esame e la quota di lavoro che lo studente deve praticare in solitudine: tale ultima direttiva, emanata dalle UE nella forma dei cosiddetti ‘descrittori di Dublino’, porta di fatto alla riduzione quando non abolizione del cosiddetto ‘corso istituzionale’, ovvero i fondamenti della materia, la sua storia e la sua falcata cronologica. C’è da dire che l’Italia è più indietro in questo processo rispetto alle università europee, che da tempo erogano programmi ‘leggeri’ e ottengono quindi più laureati (da qui le famose –o famigerate– accuse di arretratezza del nostro sistema universitario): ma se porti gli studenti alla laurea risulti comunque più performante, come un’azienda di alimentari in cui non va perduto neppure un barattolo di pelati.
Risultato: preparazione più fragile, mancanza di fondamenta delle discipline che si studiano, esami che si preparano in due settimane e tesi tirate giù in fretta da Internet. Lo studente deve manifestare la sua soddisfazione verso i corsi compilando obbligatoriamente (pena l’esclusione dall’esame) questionari in cui valuta il docente dando anche opinioni sulla complessità e peso dell’insegnamento. Tali rilevamenti furono introdotti nelle università americane e inglesi ai primi Anni Ottanta sul modello dei test commerciali con cui un cliente di supermercato valutava la qualità di una bibita o di un surgelato.
Lo studio è stato suddiviso in crediti formativi universitari (CFU), ognuno dei quali è quantificato in 25 ore di studio individuale. La quantificazione è basata sui succitati Descrittori di Dublino che, a quanto pare, sono la misura standard della capacità di studio medio dello studente europeo. Lo scorporo dei CFU riduce le materie a corpi sezionabili e svendibili a brandelli. Gli insegnamenti possono essere frazionati e lo studente può acquisire crediti persino assistendo a una conferenza durante la quale chatta sul cellulare con la fidanzata o aiutando il docente ad allestire uno stand per l’Orientamento, un’attività che occupa sempre più spazio a causa della necessità di guidare la confusa utenza adolescenziale. Possono essere introdotti crediti premio per chi va in Erasmus, ed è virtuoso l’ateneo che riesce ad attrarre studenti esteri, quale che sia il loro livello.
Progressivamente è stato introdotto il sistema dei punti organico: prima delle varie riforme ciascun docente lasciava la cattedra a un successore e il ministero rimpiazzava automaticamente le cosiddette ‘scoperture’. Adesso egli lascia una ‘retribuzione’ valutata a punti: l’ordinario vale 1, l’associato 0,7, il ricercatore 0,5 (indifferente se in Filologia classica o Storia delle merendine o Fisica teorica). Il MEF ha tagliato progressivamente i punti organico, esattamente come in quel gioco in cui 10 bambini devono occupare nove sedie, poi i nove rimasti otto e così via. Avendo meno punti organico, gli Atenei devono decidere come ripartirli: lo fanno attraverso algoritmi che regolarmente penalizzano le materie di qualità, con meno studenti ma spesso più preziose, qualificanti e prestigiose.
Viene privilegiata inoltre l’assunzione di ricercatori a scadenza (TD = tempo determinato), il cui posto sarà rinnovato se: 1) ci sarà la retribuzione; 2) se il ricercatore avrà fatto esattamente quello che il Dipartimento vuole (in genere quello che vuole il suo ordinario di riferimento). I concorsi per entrare nei ruoli a TD sono ridotti a barzelletta: non ci sono più gli scritti (lunghi, impegnativi e, soprattutto, documentali), ma una generica valutazione dei titoli, che è sempre a favore del vincitore designato (a causa, tuttavia, dell’enorme numero di candidati, fioccano negli ultimi anni ricorsi e controricorsi, che non di rado danno torto alla scelta dell’ateneo).
La legge Moratti introdusse una figura di ricercatore a TD che venne abbandonata a se stessa, e generò disoccupati di altissimo livello, parte dei quali riassorbiti dalla legge Gelmini e parte lasciata in mezzo alla strada in barba a qualsiasi criterio meritocratico e in condizioni drammatiche.
In questo quadro, la lotta fra colleghi e materie diventa darwiniana. I punti organico sono la strage culturale promessa, la morte di materie specifiche e di qualità, il trionfo dei grandi accaparratori (post-baroni, in genere assai meno validi dei loro maestri) e delle cattedre che hanno centinaia di studenti e quindi assorbono a fortiori personale. Il valore, i titoli, il prestigio della materia non contano niente. Si spengono insegnamenti che esistevano da decenni, talvolta da secoli. Scompaiono completamente considerazioni di ordine culturale e qualitativo, prevalgono criteri quantitativi e pubblicitari. Vengono introdotti per le tesi, come negli stati totalitari, limiti di pagina oltre i quali lo studente non può ‘dilungarsi’. I direttori dei corsi si fanno guardiani delle restrizioni imposte in modo che ‘gli studenti non perdano tempo a scrivere’. Sempre più spesso tutti i docenti votano a favore delle direttive che vengono dall’alto. Il dissenso è spento.
Il 3+2 favorisce in un primo momento un grande fiorire di corsi specialistici. Tuttavia, la grave crisi economica che travolge il nostro paese, accompagnata agli esiti protratti e sempre più accentuati del crollo demografico e dalla contrazione dei finanziamenti destinati all’università, determina ben presto un effetto paradossale (ma voluto): le sedi medie e piccole perdono iscritti e tendono a ridurre l’offerta. Molte famiglie italiane, infatti, investono sul percorso specialistico del loro (spesso unico) figlio in grosse sedi collocate nelle parti trainanti del paese. Poiché il sistema premiale è agganciato all’aumento delle iscrizioni, scatta il circolo vizioso: l’ateneo piccolo e medio ha meno iscritti, quindi riceve meno risorse, meno reclutamento, meno strutture, l’ateneo grande riceve denaro, personale, strumenti e diventa sempre più grande, sempre più visibile, sempre più attraente.
L’informatizzazione è forzata al massimo: il MIUR destina soldi alle macchine, non agli uomini. La qualità della formazione è scambiata con la quantità di strumenti informatici acquistati e messi all’opera. Se una parte del processo è inevitabile e anche, in certi ambiti, doverosa, il resto è semplicemente obbligatorio e attuato attraverso circolari telematiche emesse da organi direttivi ristretti e potenti. Un registro cartaceo dura anni e costa pochissimo; ciononostante, vi è l’obbligo di usare il registro elettronico con procedure di verbalizzazione che richiedono l’uso di un telefono cellulare. In parallelo, e senza alcuna motivazione se non slogan ecologici, viene abolito anche il libretto dello studente, il registro del docente, talvolta persino i libretti con i programmi dei corsi. I simboli storici dei percorsi universitari svaniscono nel nulla. La dematerializzazione è perdita di appartenenza: tutto passa attraverso teleschermi.
Nessuno osa far osservare che una strumentazione elettronica richiede materie prime, energia, trasporto e, dopo pochi anni, smaltimento con impatto ambientale: il computer viene dal nulla, non costa nulla, risolve tutti i problemi. La carta è invece un prodotto del demonio che inquina l’ambiente. I rettori vanno a mettere firme per sostenere Greta mentre promuovono lo smantellamento di biblioteche preziosissime, confinandone i libri in depositi a prova d’incendio.
La sensibile diminuzione del FFO ha esiti sul personale: la campagna stampa scatenata durante la legge Gelmini presenta gli atenei italiani abitati da baroni corrotti e studenti perdigiorno. Tagliare è efficienza, ottimizzazione, giustizia. Dove prima era “normale” far lezione a cento persone in un cinema, adesso è normale farla a trecento. Ma l’aula attrezzata permette che un teleschermo ingrandisca la figura del docente e quindi il problema non esiste più. La recente emergenza COVID ha permesso di accelerare un processo per cui l’università si configurerà come ente che eroga corsi on demand, vendibili in blocco o singolarmente, sopprimibili a piacere e mutuabili da qualsiasi altro ateneo nel caso una cattedra non venga sostituita per carenza di punti organico.
Intanto l’Italia perde, nel silenzio generale, ventimila unità di personale docente, ovvero di elevata qualificazione, che saranno rimpiazzate solo in parte e solo con contratti precari. L’intero sistema universitario è in mano a politici, e talvolta piuttosto a loro consiglieri occulti, che guardano al modello anglosassone, senza alcun tipo di riflessione critica e senza alcun riguardo alla qualità dell’insegnamento e alla preparazione finale dello studente.
Fretta, iperspecializzazione e tecnologia sono gli idoli bruti sul cui altare il sapere millenario europeo si va sbriciolando. Le riforme hanno avuto l’effetto (invero lo scopo) di creare generazioni giovani più ignoranti dei propri genitori. Giovani pronti ad accettare lavori sottopagati, schiavi che si venderanno al peggior offerente in qualunque parte del mondo.
Rimane un mistero la necessità di applicare alla trasmissione del sapere i concetti di meritocrazia e competitività. Non si vede il motivo per cui uno Stato non debba offrire il meglio in materia di istruzione a ciascun giovane, laddove bastino buoni docenti, buone biblioteche e gli indispensabili aggiornamenti. La peste meritocratica è la morte della buona qualità media, il pretesto che obbliga studenti e docenti a scannarsi fra loro, perché è stabilito a priori che solo un numero ristretto di persone avrà diritto a qualcosa di decente. Il taglio delle borse dottorali è un buon esempio di queste scellerate politiche: mentre tutti fingono di stracciarsi le vesti per la fuga dei cervelli, vengono tragicamente ridotti i finanziamenti per la formazione dei giovani più promettenti.
Se di diecimila aspiranti medici quattromila sarebbero potenziali buoni medici, il potere ha già deciso che solo mille saranno i posti disponibili e quindi tremila buoni medici andranno persi a priori. D’altra parte, e paradossalmente, lo studente scarso non può essere bocciato perché ciò dimostrerebbe l’inefficienza dell’ateneo e causerebbe una decurtazione del FFO: strozzatura in entrata ma costrizione alla laurea.
Tale finta ideologia meritocratica ha bacato irrimediabilmente il cervello di coloro che ormai da decenni gestiscono l’istruzione in Italia. I quali sono in una certa parte ex-sessantottini e ormai figli e nipoti di sessantottini che agiscono in totale consonanza con bocconiani, filoconfindustriali, massoni e leccapiedi in carriera. Zelanti nel riformare un paese ritenuto arretrato, poco tecnologico, poco internazionale, poco tutto, i vertici universitari non ricevono d’altro canto alcun contraddittorio. L’opinione pubblica è plagiata da generiche campagne antibaroni o poco informata, mentre la classe docente vera e propria, che dovrebbe difendere se stessa e il valore dell’insegnamento, è in pieno declino etico e intellettuale. Su costoro sarebbe meglio calare un impietoso velo, dato che hanno avallato le peggiori nefandezze dando il loro assenso, attivo o passivo. Pochi, screditati e collaborazionisti.