Andare lì era esattamente la mia idea di estate al mare, in cui tutto rallenta e si fa sospeso, pigro, silenzioso. Le persone erano poche, la spiaggia un po’ selvatica: letteralmente un paradiso in terra. Così dopo qualche anno decisi di fare una serie di opere legate a quel luogo, dal titolo “Caminia”, erano circa una ventina di quadri di varie misure, per restituire quella dimensione “edenica” in cui mi ero immersa tante volte. Ero felice di essere stata capace di cogliere quell’atmosfera attraverso delle scene, come si direbbe nel linguaggio della storia dell’arte, “di genere”. Una delle gallerie con cui collaboravo aveva fatto un nuovo sito su internet, piuttosto buono (l’e-commerce allora non era ancora così importante), e nei primi anni 2000 mi pubblicò alcune immagini delle opere.
Stiamo parlando di venti anni fa, sembra niente, ma i social quasi non c’erano, non esistevano gli smartphone e le foto si dovevano stampare. Feci infatti alcune foto in quelle estati, però visto che stamparle costava, utilizzavo i provini a contatto, della misura dei fotogrammi di un rullino. Infatti le opere, anche quelle di grandi dimensioni erano interpretazioni dei fotogrammi 1x2cm circa. Fatto sta che per disgrazia, avendo chiamato la mia serie "Caminia" come il vero luogo fisico, il motore di ricerca le mise sul sito del comune della spiaggia e altrettanto per disgrazia, qualcuno si riconobbe. E invece di essere contento di esser finito in un'opera d'arte, decise di farmi causa e di portarmi in tribunale. Fu una lunga e complessa vicenda giudiziaria, perché era vagamente legata alla violazione della privacy, ma la cosa non era così ben chiara, perché si parlava di un dipinto. Fu un caso giuridico.
Purtroppo, pur ben difesa, fui condannata, perché il giudice fu “prudente” e non sapeva forse neanche bene cosa fare. Fu un periodo triste. Gli avvocati mi proposero un pagamento a rate, che accettai e andò avanti anni: ogni volta che facevo il bonifico però gli occhi mi si iniettavano di sangue. Vi era la possibilità dell’appello, per la verità, fui accolta cordialmente da Giuseppe Iannaccone, avvocato e collezionista milanese, che mi propose delle soluzioni possibili, ma alla fine decisi di voltare pagina. Erano usciti articoli di giornale, avevano anche aperto un fan club a mio sostegno, ma io mi allontanai, non mi interessava.
E ora che siamo nell’epoca dei social, in cui molti se non tutti hanno la massima esposizione possibile e spesso se ne compiacciono, questa storia appare surreale e fa anche un po’sorridere.