Vita d'artista


Miart

C’è stato un periodo, neanche troppo tempo fa, che vi era quasi una sola fiera d’arte in Italia: Arte Fiera di Bologna. Non tutti i galleristi erano intenzionati a partecipare, anzi, ad alcuni proprio non interessava.

Riuscire a dare un’idea delle opere e degli artisti di una galleria in uno stand fieristico (ora si usa il termine "booth") non è facile, dati gli spazi comuni in cui si affastellano gli stili, e alcuni proponevano solo opere molto grandi, i classici “pezzi da novanta”, penso ai grandi Schifano alla galleria Mazzoli. Molti artisti snobbavano le fiere ed erano “contro” il mercato, esporli era quasi impossibile. In generale per le gallerie, essendo al centro della vita artistica e accontentandosi di pochi ma fedeli collezionisti, partecipare alla fiera non era poi così importante, e si discuteva se farla o non farla. Come si è passati in pochi anni dal “non mi interessa” alla “smania” di esserci, altrimenti sono uno sfigato? Pardon.

Personalmente, trovo questa ansia di prestazione mal riposta: alla fine, a fronte di tutto l’impegno profuso, le fiere ormai si assomigliano tutte e tendono ad assumere sempre più l’aspetto di un Bubbleworld un po’ più chic , un luogo con esperienze “immersive” , in cui per forza riescono a essere viste solo le opere più imponenti e colorate, e tante cose belle che chiedono uno sguardo meno distratto risultano invisibili.

Quest’anno, per curiosità, ho pensato di fare un salto al Miart, per vedere che aria tirava dopo la pandemia e… niente è cambiato. Ciò che è successo in questi ultimi anni (e la guerra dietro l’angolo) non ha in alcun modo screziato la liscia patina delle nostre belle fiere e tutto è ripreso come nulla fosse. Ho notato un piccolo quadretto che aveva per protagonista un pipistrello, per altro giocoso. Con tutti i distinguo del caso, mi domando solo se eventi storici così rilevanti non chiedano nuovi schemi e approcci.

Altra domanda che mi faccio, visto il vasto pubblico presente in tutti i giorni della fiera, è come mai le gallerie hanno deciso di abdicare alla loro centralità e investono tante risorse a questi eventi, in cui tutto si fa tranne che cultura? Perché hanno bisogno di vedersi in tanti e non di coltivarsi in pochi? E gli artisti, perché sono addirittura contenti di esporre in un contesto così ostile?

Vorrei prendere a prestito qualche parola di Pasolini, apparsa di recente su un post di Artlife: “In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di prevaricatori falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici del successo, dell’apparire, del diventare… A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde. E’ un esercizio che mi riesce bene. E mi riconcilia con il mio sacro poco”.

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