Pensieri e pensatori in libertà


Hannah Arendt e i leaks del 1971

In epoca di informazioni segrete sgocciolate al pubblico, in modo più o meno noto, con fini più o meno espliciti, vale forse la pena ricordare lo splendido lavoro di Hannah Arendt (1906-1975) su un altro celebre leak: quello dei cosiddetti Pentagon Papers, l’indagine segreta del governo americano sul disastro della guerra in Vietnam. 

L’indagine, voluta dal segretario alla difesa Robert McNamara negli anni 1967-68, quindi ancora in pieno conflitto (si concluderà nel 1973) sapeva già che gli americani avrebbero perso quella guerra e si chiedeva come mai. L’indagine filtrò al New York Times, nel solito modo dubbio, nel 1971 e Arendt scrisse per lo stesso NYT un lungo commento nel 1972. In Italia lo trovate pubblicato da Marietti con il titolo La menzogna in politica.

Arendt è sempre realista. Ciò che si capisce dai Papers è che gli Stati Uniti si erano imbarcati in una guerra nella quale non avevamo alcun interesse reale, tantomeno di carattere imperialista, nonostante ciò che ne dicevano le piazze europee. Il motivo della guerra era sempre e solo un’immagine pubblica, ed è a quell’immagine che venivano sacrificati milioni di vite vietnamite e migliaia di vite americane. Il governo americano era diventato un’agenzia di Public Relations invece di essere preoccupato dei propri interessi reali o dei nemici reali. Tant’è che, nel corso degli anni, gli obiettivi dichiarati erano cambiati: prima occorreva sostenere l’indipendenza e l’autodeterminazione del Vietnam del Sud, poi evitare lo spettro del comunismo mondiale, infine perdere con onore. Il nemico reale non compariva neanche. Nessuno di questi obiettivi era reale, come dicevano dai terreni di battaglia i report dei servizi segreti americani, sistematicamente ignorati dal governo, che si affidava a problem solvers e scenari da esperti, ovviamente di stanza a Washington D.C.

Così, nota Arendt, si formano le ideologie: l’immagine prende il posto della realtà e, dopo, la si conferma con discorsi che bisogna rispettare a tutti i costi, anche a quello delle vite. In effetti, si può essere ideologici in qualsiasi cosa e ciascuno lo può essere. Ideologia infatti deriva da idolo: si può fare un idolo di qualsiasi cosa o persona, e poi mettersi ad adorarlo. Solo che l’idolo, come ricorda la Bibbia, è diverso da Dio inteso come Essere personale perché ha occhi ma non vede, ha orecchi ma non sente, ha bocca ma non parla. L’idolo, cioè, non è in grado di mantenere le promesse perché è solo un’immagine e prima o poi viene abbattuto dalla dura realtà.

Il commento finale di Arendt vale il libro. Gli americani in Vietnam dimostrarono di essere soprattutto incompetenti, scambiando un’immagine costruita da sé medesimi per la realtà. Non grandi ideologi imperialisti ma piccoli ideologi di se stessi, fissati con la propria immagine. Ma, sotto a questa meschinità che tanto costò, c’era allora e c’è sempre una grande tentazione, quella di non accettare il nostro limitato essere umano, per natura finito. Una mania di onnipotenza, strana in gente che nasce in un momento determinato e non per proprio volere, muore prima o poi qualunque cosa faccia, è soggetto e oggetto di casi e circostanze sempre contingenti. Bisognerebbe ricordarselo in epoca di CEO capitalism, dove incompetenza e immagini di sé sembrano pericolosamente predominanti.


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