L’avvocato Roland Vogl, Executive Director dello Stanford Program in Law, ha identificato cinque aree di maggiore sviluppo tecnologico nel campo giudiziario: ricerca legale (sistemi di indagine dei dati legali e giurisprudenziali validi ai fini della prospettazione e della decisione); big data law, comprensivo di vari software di elaborazione di large language models e machine learning che, dopo aver “digerito” maree di testi relativi a casi legali, contratti e atti, possono elaborare modelli e prevedere i possibili risultati; diritto computazionale, ossia algoritmi di intelligenza artificiale, programmati sulla base di regole giuridiche, per automatizzare il processo decisionale; infrastruttura legale, ovvero tecnologie per “realizzare l’incontro di domanda e offerta legale”; sistemi per la risoluzione delle controversie online, ovvero una sorta di giudice di pace cibernetico. A queste si devono aggiungere i sistemi di giustizia predittiva, che sulla base delle sentenze pronunciate dagli organi giudiziari su casi analoghi, riescono a prevedere con buona precisione l’esito di un procedimento giudiziario, realizzando una profilazione del giudice.
È indubbio che queste risorse tecnologiche portino importanti benefici all’interno degli studi legali e degli uffici giudiziari: semplificare l’attività professionale aumentando il livello di efficienza dell’amministrazione giudiziaria; favorire la trasparenza riducendo la discrezionalità; placare il desiderio, generato dall’incertezza giuridica, di conoscere in via anticipata le possibilità che la propria pretesa venga accolta o rigettata; incoraggiare la composizione delle controversie mediante l’impiego di metodi alternativi di risoluzione delle medesime, alleggerendo le pendenze e riducendo il carico di lavoro dei giudici; facilitare la coerenza sistemica nell’ordinamento giuridico; ridurre i rischi di condizionamenti esterni, esaltando il carattere di imparzialità dell’algoritmo.
Le potenzialità racchiuse in questi sistemi fanno però emergere, sul piano etico, sfide inedite per il giurista, che deve vagliare con sguardo critico il loro contributo nel mondo giuridico, in relazione al loro impatto sul funzionamento dello stato di diritto e dei diritti fondamentali dell’uomo. L’aspirazione è che l’intelligenza artificiale debba comunque attenersi ai principi regolatori dell’ordinamento, lasciando l’ultima parola all’umano, che sia avvocato, procuratore o giudice.
Ma questo potrà oggettivamente avvenire?
Gli iter velocizzati dall’alleato digitale, da un lato saranno una manna per i ritardi cronici dell’amministrazione della giustizia, dall’altro chiameranno gli attori dei processi a esercitare il loro “piano umano” con più frequenza, per esaltare le loro capacità di contestualizzazione, introspezione, e deduzione. Sembra un paradosso ma il miglior alleato del giurista sarà innanzitutto suo antagonista, gli farà vedere altri punti di vista e contro-dedurrà prima che l’umano prenda in coscienza una decisione su come procedere.