Pensieri e pensatori in libertà


Victoria Lady Welby: Dio, il lavoro, il linguaggio

Questa settimana vi presento una nobildonna originale di fine Ottocento i cui studi sono tuttora interessanti. Victoria Lady Welby era nata nel 1837 da una famiglia dell’altissima nobiltà britannica. Rimasta orfana di padre girovagò per il mondo visitando Stati Uniti, il nord Africa, il Medioriente, in epoche in cui il turismo culturale non esisteva. Poi tornò in Inghilterra dove prese il ruolo di Maid of Honor della medesima regina Vittoria. Poi si sposò con Lord Welby ed ebbe tre figli.

Una volta cresciuti i figli, però, la nobildonna decise di fare qualcosa di strano per epoca e condizione: si mise a studiare. Studiò moltissimo in ogni campo e poi si mise a scrivere. Aveva più di quant’anni quando scrisse un libro di educazione religiosa, interessata alle ragioni e agli obblighi morali della fede. Il libro fu un totale insuccesso ma Lady Welby, invece di giustificare l’insuccesso, lo studiò. Capì allora che molto di quel fiasco era dovuto a incomprensioni e che queste ultime erano dovute all’uso del linguaggio. Con più di 50 anni di anticipo su Wittgenstein e sulla filosofia del linguaggio ordinario, si mise allora a riflettere sui diversi modi di significazione. Spesso, infatti, non ci intendiamo perché prendiamo le cose in sensi diversi. Ma perché ci sono sensi diversi? Quali e quanti gradi di significazione ci sono? Welby ne distinse tre: il senso immediato, quasi istintivo, sensoriale, legato al contesto (sense); il senso che intende dare chi parla (meaning); il senso valoriale di ciò che si dice e che si incrementa nel tempo (significance). Cercò quindi di fondare una disciplina, che chiamava Significs, che avrebbe dovuto occuparsi del problema. Poi, da vera studiosa, si mise alla ricerca di tutti coloro che potevano aiutarla a sviluppare e a propagare la sua idea. Divenne così corrispondente di alcune delle menti più importanti dell’epoca, tra cui Peirce, Stout, Russell e Giovanni Vailati.

Nel dialogo con Charles S. Peirce, fondatore della semiotica, si sviluppa anche una conversazione sulla fede in Dio. Per Welby la fede dovrebbe essere diversa dalla credenza. La fede (faith) è certa, mentre la credenza (belief) è incerta. Peirce, invece, fa notare che fede (pistis, in greco) vuol dire conoscenza indiretta, mediata da un testimone, e che, come ogni altra conoscenza, quando la ricerca è ben condotta, può portare a una credenza certa (assured belief), che è tutto quello che la conoscenza umana può ottenere in ogni campo, scientifico o religioso, perché la verità assoluta e tutta intera non è di questo mondo. In questo senso, dice Peirce, possiamo “avere fede” nel dizionario inglese-latino Liddell Scott quanto in Dio. Avere fede in quel dizionario significa credere con certezza che qualunque sia il significato inglese che esso indica per una parola, sarà un significato razionale, giusto e utilizzabile in certe condizioni. E fede in Dio significa che qualunque cosa ci sia nel mondo, ci sarà un significato razionale, giusto e utilizzabile in certe condizioni. Da questo punto di vista, ogni buono scienziato è già un credente perché è convinto che il mondo abbia un senso. Si tratta dell’uso popolare del termine “fede”, intesa come senso religioso, come conoscenza umana che inevitabilmente conduce a Dio. Lady Welby capisce e, cosa stranissima tra filosofi, cambia idea, mantenendo solo una sfumatura morale per la parola “fede” che implica secondo lei un solo carattere: la fedeltà (loyalty).

È una bella discussione, purtroppo solo in inglese per ora (Semiotics and Significs, 1977) che mostra due pensatori effettivamente al lavoro. Ed è sul lavoro che Welby insegna qualcosa a Peirce. Mentre quest’ultimo, lusingato dalla conversazione con la donna d’alto lignaggio, dà sfogo alle sue convinzioni un po’ classiste sui meriti dell’aristocrazia, Welby risponde che in realtà il termine “Lady” è solo un titolo, che, essendo morto suo marito, si applica ora alla nuora, la sposa dell’attuale Lord Welby. Lei, invece, vorrebbe essere ricordata come “una lavoratrice tra lavoratori”, con una bella idea di che cosa sia il lavoro dello studio.

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