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Sinner, l’imprevedibilità del caso e Dio

Alla fine del match vinto con lo sventurato Casper Ruud nella semifinale delle Finals ATP di Torino, Jannik Sinner ha rilasciato la classica intervista dopo gara. Per chi non frequentasse il tennis, si tratta di interviste di per sé noiose dove, come si suole, domandano al povero tennista accaldato quali siano le sue emozioni. Il tennista deve dire che le emozioni sono sempre speciali, nonostante si tratti del suo lavoro, svolto a livelli estremi ogni giorno per la maggior parte dei giorni. 

Come se a me chiedessero che emozione ho avuto nel leggere il tale o talaltro articolo scientifico o nel fare una lezione. La partita, tuttavia, era stata corta, anzi cortissima. Sinner aveva sbaragliato l’avversario con forza sbalorditiva in poco più di un’ora. Per completare la serata, occorreva starlo ad ascoltare.

Così, tra una finta emozione e l’altra, Sinner dice che in effetti avrebbe potuto andare tutto diversamente se quel punto fosse terminato in altro modo. E aggiunge: “perché il tennis è imprevedibile”. Ora, nulla era sembrato più piatto e prevedibile di una partita finita 6-2 6-1 con manifesta superiorità. Eppure, il commento è curioso e significativo perché mette a fuoco il grande tema del “caso”. Il caso imprevedibile rovescia da un istante all’altro intere situazioni, storie, vite. Nello sport professionistico, e nel tennis in particolare, si può vedere un’immagine icastica della presenza perenne di questo possibile tornante della vita.

Il caso è un elemento a cui in generale il nostro razionalismo occidentale presta poca attenzione, se non per eliminarlo. Così mentre Aristotele diceva che per una vita felice e virtuosa ci vuole anche “fortuna”, gran parte della filosofia moderna ha lottato per eliminare questo oscuro e potentissimo fattore. Ancora di più se n’è convinto il determinismo di fine Ottocento, sicuro che la fisica e la chimica potessero spiegare e prevedere ogni occorrenza.

La scienza contemporanea ha sfatato questa immagine deterministica durante il Novecento, ma già prima qualche scienziato con stile più filosofico aveva provato a rivalutare la presenza di qualcosa di casuale e di indeterminato all’interno della natura stessa. È il cosiddetto tychismo (da tyhce, caso) di Charles S. Peirce, la considerazione che i dati sono sempre parziali non solo perché non abbiamo gli strumenti giusti per misurarli ma anche perché la realtà stessa ha una percentuale minima ma reale e ineliminabile di spontaneità. Come se Dio non avesse smesso di creare o non avesse creato una volta per tutte, commentava l’autore americano.

E in effetti la questione di Dio è anche un po’ inclusa nella questione del caso. Troppo spesso le religioni, incluse tante versioni del Cristianesimo, ritengono una virtù il dire che “nulla accade per caso”. Purtroppo è questo un portato dello stoicismo occidentale e poco ha a che vedere con la concezione di un Dio libero che vuole essere umani liberi. “Caso” è una bella parola per dire qualcosa di molto divino: l’intervento in ultimo incomprensibile di Dio nel mondo, la cosiddetta “grazia”.

Ecco alle volte dove conduce una partita di tennis, soprattutto se giocata in modo tale che pare difficile non pensare a uno stato di grazia.

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