Non una saga familiare, non l’unico punto di vista di un personaggio è alla base dell’opera ronconiana, bensì la discussione di un cruciale problema culturale, politico, religioso e sociale. Le due tragedie e la commedia messe in scena da Ronconi si prestano a incarnare, infatti, gli snodi fondamentali di una progressiva crisi del senso del sacro.
Ronconi suggerisce di attraversare la trilogia assumendo come punto di vista l’ultimo atto del viaggio. Nell’atmosfera caotica e grottesca che caratterizza le Rane aristofanee, non solo l’umano, ma anche il sacro è condannato a una irrimediabile e totale degradazione. È la distruzione, dunque, a sollecitare nello spettatore una ricerca delle cause della crisi, nonché una riflessione sulla possibilità della rinascita.
Le domande poste dalla versione ronconiana delle Rane riconducono, con quella che il regista definisce “ideale capriola” , al punto di partenza, al Prometeo Incatenato, prima grande cesura tra l’umano e il divino. Il dono del fuoco, presa di posizione dell’uomo dinanzi al dio, nella tragedia eschilea è ancora il fantasma di una minaccia futura, una colpa punita parzialmente, un male non ancora totalmente espiato. Prometeo è iniziatore di un’umana opposizione al sacro, in un processo di negazione del divino che trova tragico compimento nel personaggio di Penteo, coprotagonista, insieme a Dioniso, delle Baccanti euripidee. Penteo e Dioniso parlano senza capirsi, si guardano senza vedersi reciprocamente, sono due estremi di una scissione profonda, di un divorzio che costa a Penteo la punizione di una morte materiale, all’umanità quella della degenerazione, dell’annichilimento.
Il trionfo del dio sull’uomo, tuttavia, è breve. Il Dioniso delle Rane scende nell’Ade, si lascia contaminare dal degrado, si perde e nel perdersi smarrisce sia la propria natura sacra, venerabile, sia quella natura teatrale che fa di Dioniso il simbolo dell’arte drammatica. In crisi, sembra suggerire allora Ronconi, non è solo il generico senso del sacro, ma anche e soprattutto quella specifica sacralità che trova corpo nel teatro, nel teatro antico.
Ora che sono state indagate le cause del caos delle Rane ronconiane, occorre, però, affrontare la possibilità di una risoluzione della crisi. La lacerazione del rapporto tra umano e divino si può ricucire? L’uomo contemporaneo può ancora vivere l’esperienza del teatro come rito?
La risposta è data dallo stesso Dioniso. Al termine delle Rane, il dio, arrivato nell’Ade per riportare sulla terra un tragediografo tra Eschilo ed Euripide, sceglie di restituire ai vivi il primo, l’autore di quel Prometeo Incatenato che apre la trilogia. Eschilo torna in vita e con Eschilo torna in vita Prometeo e con Prometeo il dramma del sacro. Nella potenziale, infinita ciclicità del viaggio è racchiuso il messaggio donato da Ronconi. Al tentativo di modificare una parabola necessaria e già compiuta, il regista preferisce la presa di coscienza dell’inevitabilità. Ronconi è l’uomo che osserva da lontano, che mantiene la distanza, che interroga i testi del teatro antico con la consapevolezza che del loro spirito sacro e rituale rimane un relitto, non un mondo da ricostruire, ma un ricordo da conservare.