Attraversando in auto il tratto di strada che mi separava dalla meta del mio domenicale oziare, ho osservato stupito l’affollarsi di crocchi e piccole code dinanzi ai cimiteri. Mamme, fratelli, nonne, zii andavano a portare saluti presso i propri padri sepolti in rurali necropoli: ciascun campo sacro ha visto affollarsi i propri cancelli dei figli carichi di parole non dette quand’era il tempo. È stata un’immagine fortissima, intravista dal finestrino appannato, di cui mai mi ero reso conto. Ai defunti si portano i fiori a novembre, lo diceva pure Pascoli: «da giardini ed orti, di foglie un cader fragile. È l'estate, fredda, dei morti.» E allora perché mai il 19 marzo ho visto signori addobbati tutti quanti in fila?
Immagino abbia a che fare qualcosa quel motivetto della saggezza popolare circa l’avvalorare le cose che si son perse e che davamo per scontate. Piuttosto del parlare, festeggiare, discutere quando possibile, ci ritroviamo a pensare quanto avrebbe potuto essere. Mi sento di fare un’osservazione a questo punto, sprezzante verso qualsiasi esasperata ideologia o appiccicata convinzione. Celebriamoli i papà! Tutti! Quelli che non abbiamo mai conosciuto, quelli che volevamo differenti, quelli che facciamo disperare, quelli che non ci sono più… Non importa che famiglia sia, con uno, due o cinquecento papà, siamo grati verso coloro che possiamo considerare la nostra casa nel mare delle difficoltà.