Il Péguy di Bruno è un appassionato realista, che si muove da un socialismo ingenuo – avrebbero detto i colti che disprezzava –, fatto di amore concreto agli ultimi e agli emarginati, anzi a ogni singolo ultimo ed emarginato, a un cattolicesimo altrettanto ingenuo nel suo ardore mariano e nella sua purità assoluta. Péguy (1873-1914), che muore nei primi mesi della grande guerra a soli 41 anni, è stato tutto: intellettuale liceale che vuole entrare all’Ecole Normale, socialista radicale e difensore di Dreyfus, soldato patriota e convertito al cattolicesimo negli ultimi della sua vita. E, allo stesso tempo, amico, sposo, amante, padre di tre figli.
Bruno sottolinea soprattutto la continuità di tutti questi cambiamenti. Péguy rimane sé stesso dall’inizio alla fine: un uomo che ama la concretezza della realtà e che segue in essa ciò che avviene, senza pregiudizi. Uno che preferisce cambiare idea per affermare la realtà piuttosto che cambiare la realtà per amore alle sue idee.
La marca inconfondibile di Péguy diventa così l’amore al singolo: all’oggetto singolo, al singolo povero, al lavoro singolo e umile e, infine, a Gesù in quanto unico e singolo essere veramente carnale e veramente divino. L’accadere di questa singolarità, l’avvenimento – come lo chiama Péguy – è opposto a ogni generalizzazione, a ogni sistema filosofico, a ogni comprensione progressiva e progressista della storia, anche quella dei suoi amici socialisti. Péguy, difensore della libertà di pensiero e di espressione, fino a non accedere ai sacramenti pur di non forzare la libertà di sua moglie non ancora convertita, è un unicum, una specie di anarchico cattolico o di cattolico anarchico, o forse semplicemente un uomo libero e con l’animo, prima ancora che con la penna, da poeta.
È un poeta in lotta con il mondo e che sa che perderà. Il filosofo americano Josiah Royce diceva che le uniche cause vere sono quelle perse perché sono quelle dove si capisce che ci deve essere Dio a fare giustizia e si prova che l’unica cosa che conta nell’essere umano è la fedeltà alla causa. La fedeltà è pura solo quando la causa è persa. Se Royce avesse conosciuto Péguy, l’avrebbe scelto come esempio della sua filosofia.
Bruno fa notare come tutto ciò derivi filosoficamente da un Bergson più ascoltato che letto – perché il Bergson scrittore alla fine approda a qualcosa di molto simile a un sistema – e sia simile per inquietudine e pugnacità a Nietzsche, pur prendendo soluzioni alla fine opposte. Ma, molto più importante, Bruno fa notare come la lotta di Péguy contro le manie di spiegazioni onnicomprensive degli intellettuali (anche cattolici) e contro il potere soffocante che impone un unico pensiero non sia mai finita e sia forse la caratteristica saliente di tutto il mondo moderno. Certo, viene da chiedere a Péguy e a Bruno, a Charles e a Giorgio, come si fa a rispondere al male e alla sofferenza solo con eventi singoli, con aiuti asistematici, con pensieri mai organizzati. Non so se saprebbero dare una risposta o se la risposta ci sia, ma probabilmente non è questo il compito di persone di questo genere, che servono invece a ricordare che il mondo non ha senso senza un bene puro, un amore al singolo, una lotta per una causa irrimediabilmente sempre persa.