Esulando l’analisi giuridica più elementare, risulta ovvia la labilità del contorno di questi valori, ponendoci dinanzi un’insormontabile difficoltà etica: rischiamo di cadere nella repressione?
L’avvento della digitalizzazione ha esacerbato la serietà di simile dilemma: una condivisione libera e interconnessa s’arrischia allo scivolare nella distorsione del vero, realizzata attraverso contenuti falsi o nocivi. La censura diventa quindi necessaria per proteggere sicurezza e stabilità delle società, applicando un controllo disciplinare, volto a generare l’autocoscienza degli stessi utenti. Una concezione figlia del panopticon di Bentham, il carcere dove ciascun detenuto è sempre visto dal sorvegliante, quindi inibito dal malevolo agire. Questa teoria sociale, condivisa da autori come Michel Foucault e oggi approdata al digitale, rivela però un proprio paradosso liberticida, lasciandoci immaginare una realtà degna di “Matrix” e “Nineteen Eighty-Four”.
Definite ora le linee generali di un dibattito lungamente discusso, mi sento di condividere un mio pensiero a riguardo: privacy e censura sono entrambe diritto e dovere. La prima diventa coercizione, quando la stampa è costretta a omettere elementi fondamentali per mancato consenso delle fonti; la seconda ascende a beneficio quando tutela i cittadini, come nel caso del diritto all’oblio. L’una è dipendente dall’altra: sarebbe impossibile garantire la protezione della riservatezza senza una sanzione, così come risulterebbe assurda una restrizione dei contenuti priva di premesse morali.