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Perché agli italiani piace tanto la monarchia inglese

Uno dei misteri storico-sociologici, spesso ricordato dagli ambasciatori britannici in Italia, è il motivo per cui agli italiani piaccia tanto la monarchia inglese di cui, tradizionalmente, amano seguire le vicende intricate dai gossip ai cerimoniali, dai divorzi ai funerali. 

I giornali italiani, anche in occasione della morte della regina Elisabetta II, si sono distinti per quantità e tempestività di notizie, sapendo di incontrare l’interesse estremo del pubblico. Ma che cosa ci piace dunque di questa monarchia? Perché guardiamo alle storie della corona inglese con interesse infinitamente maggiore rispetto a quelle della democrazia americana, dell’autocrazia cinese o della pseudodemocrazia russa – tutte ben più decisive dal punto di vista storico ed economico attuale?

La risposta facile è l’attrazione degli opposti. Un popolo come il nostro, caotico e trasformista, unito solo in un recente passato e mai pienamente, finisce con l’ammirare il suo antipodo: la stabilissima monarchia inglese, che ha cambiato solo una manciata di dinastie in mille anni e che sembra assicurare un punto fermo in mezzo alla tempesta, tanto più se, come nel caso della regina Elisabetta II appena scomparsa, mantiene un grande riserbo e silenzio. Nella stessa direzione, in effetti, vanno gli apprezzamenti per qualunque Papa e per i presidenti della Repubblica, soprattutto per quelli che parlano poco e pacatamente. A proposito di presidenti, va ancora in questo senso il conservativismo per cui abbiamo rieletto per un secondo mandato i due ultimi presidenti.

Il secondo tema riguarda la semiotica, lo studio dei segni. Le democrazie, soprattutto quelle recenti come la nostra, sono per natura un po’ prive di gesti pieni di segni: cerimonie, inchini, collane, anelli, paramenti sono quasi del tutto assenti e, quando ci sono, sono deboli. Difficile rimpiazzare l’ermellino con la cravatta, la carrozza tirata dai cavalli con l’automobile, l’anello o la corona con una spilla sulla giacca. Ci sono oggetti e gesti evocativi e altri che non lo sono: Tolkien e Leopardi hanno fatto splendide e ineludibili osservazioni al riguardo. Per di più, le culture delle democrazie occidentali hanno passato la seconda metà del secolo scorso a denigrare ogni simbolo come fonte di autoritarismo e violenza, salvo poi lamentarsi della mancanza del senso del pubblico. Sono i segni, in particolare quando organizzati insieme in gesti, che trascinano l’essere umano perché incarnano gli ideali in oggetti e azioni. Non è un caso che le cerimonie, private e pubbliche, stiano tornando di moda: i matrimoni spettacolari, le consegne di medaglie, l’apprezzamento dell’inno nazionale sono alcuni segni di ritorno al futuro che costellano la nostra epoca.

Infine, c’è un problema di efficienza, dove però emergono le differenze. Una curiosa osservatrice mi faceva notare che il suo stupore maggiore era che Carlo III fosse re non appena la madre era morta. Nelle monarchie ereditarie non ci sono lungaggini burocratiche e tutto accade “naturalmente”. Questa naturalezza e questa velocità sono state il motore e il movente per cui le democrazie ci hanno messo tanto tempo a emergere. Ma è anche il motivo per cui le antiche monarchie sono crollate e rischiano sempre di crollare: la naturalezza ha successo fino a quando i monarchi sono equilibrati e intelligenti nel seguire i cambiamenti della società, ma diventa assolutamente inattendibile non appena i reali sbagliano. In fondo aveva ragione il vecchio Aristotele: la monarchia con regnanti buoni e onesti è senza dubbio il migliore dei metodi di governo, ma se i regnanti non sono buoni, essa degenera in tirannide o dittatura. Quindi è forse meglio tenersi il governo del popolo, la cui forma buona dura poco e si è vista raramente – la politeia – perché ha una forma cattiva più accettabile, la nostra democrazia caciarona. Così, tanto guardiamo alla monarchia inglese, quanto non vorremmo averne di nuovo una nostra, secondo l’italianissimo principio che al peggio non c’è mai fine.


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In questo numero hanno scritto:

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Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
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