LA Caverna


Dietro lo straordinario successo dei Maneskin

Una band romana - i Maneskin - tocca le vette della musica mondiale. Questo inaspettato successo è stato definito un “felice mistero” (Massimo Gramellini in Corriere della sera (29/10/21). Il linguaggio musicale è una delle più importanti espressioni della cultura di massa. Sia che si tratti di generi classici o popolari, jazz o rock, pop, blues, country o sperimentali, ogni epoca storica è rappresentata da una colonna sonora che identifica e descrive un cammino collettivo.

Le canzoni arrivano ovunque; viaggiano nell'aria, le ascoltiamo indipendentemente dalla nostra volontà; segnano epoche e costumi sociali, amplificano le emozioni, si legano alla nostra storia. Specialmente l'evoluzione della musica pop ha sempre seguito quella della società. Internet, inizialmente considerata come fucina di lancio per le nuove generazioni di talenti, è risultato, invece, un volano per gli artisti più commerciali, meno impegnati e più facili da ascoltare. I Maneskin sono stati capaci di individuare un bisogno nella cultura musicale e lo hanno messo a profitto. È uno dei più riusciti esempi di marketing degli ultimi anni. Essi esprimono fisicamente, teatralmente, un messaggio studiato e voluto da quella potente industria dello spettacolo, chiassosa paladina universale di una ideologia, quella della “fluidità” a cui bisogna omologarsi. I Maneskin non sono rivoluzionari, dissidenti, contro il sistema, ma risultano fluidi e sfuggenti, nitidi e insieme sfocati, non incastrabili in una definizione. La loro non è una ribellione, ma un’essenza, in cui si riconosce l’odierna generazione. Essi hanno una fanbase di ragazzi, che li apprezzano soprattutto perché sono giovani e “dannati”. Il loro look, appariscente e sfacciato, composto da vestiti strappati, capelli spettinati e colorati, giubbotti e pantaloni in pelle, catene, borchie e spille, collane e croci al solo scopo di scandalizzare, crea empatia e carisma, che sono fondamentali per il successo di un brano, più importanti di una tecnica vocale perfetta. In questi cantanti che suonano coi tacchi a spillo e le calze a rete riconoscono sé stessi, casinisti e spregiudicati, nella voglia adolescenziale di infastidire e provocare. Questa anomia antropologica è conseguenza di un conformismo, spesso inavvertito, “l’arma di distrazione di massa della macchina capitalista” (Marco Rizzo) con cui si vuole che il popolo interiorizzi il codice “politicamente corretto” che detta legge e non tollera dissensi manifesti. I mass media manipolano le menti. Giornali, TV, cinema, sono l'espressione di una logica capitalistica e di omologazione delle coscienze. Per questo l'industria culturale, invece di essere uno strumento per il libero pensiero, assoggetta l'uomo, gli somministra i valori in cui deve credere, gli ideali di vita che deve desiderare, e persino come, quando e quale divertimento debba ricercare. Per molti giovani i Maneskin sono “la normalità”, ma spero non siano “il senso comune” di un “gregge” maggioritario incosciente, all’oscuro di una politica allo sfascio, di una diffusa malasanità, del collasso educativo, dei problemi di lavoro e di stipendio, di progressivo impoverimento e di perdita dei “diritti sociali”.

Il sociologo polacco Zygmunt Bauman, una superstar del pensiero sulla postmodernità, ha ben interpretato il caos che ci circonda e il disorientamento che viviamo. La società ha come sua unità di misura il consumo, in cui nuotiamo senza una precisa missione. La fase che viviamo è propizia ai populismi, spinte contrastanti che viaggiano in direzioni complesse ma senza progetti, con la sola consapevolezza di ciò che non vogliono. Il nostro mondo è un immenso campo di possibilità, di sensazioni sempre più intense, ma alla sola ricerca di esperienze vissute, magari desunte dall’effimero e dal virtuale, esperienze discontinue e disgregatrici di un tempo transitorio, di uno spazio fugace mobile, frammentato, e di costellazioni arbitrarie di eventi fortuiti. Non dimentichiamo che la disgregazione di una società è un fatto ripetibile, non isolato e confinato in un passato storico, ma, oggi, il frutto velenoso di una civiltà, alle cui regole economiche ed efficientiste sono subordinati pensiero e azione. Il “politicamente corretto”, essendo un sistema di pensiero liquido e pervasivo, ha sostituito Bibbia e Metafisica con l’industria dell’intrattenimento, la cultura pop e la comunicazione digitale dei social media concentrati in pochi grandi gruppi economici. Il «Politicamente corretto, religione che vieta la dialettica e il dissenso» (da La Verità, 7 aprile 2019 di Maurizio Caverzan) trascina alla frivolezza, ad una emotività incontrollata di passioni senza scopo e di desideri, all’opportunismo, adeguando le opinioni personali a quelle più conformiste. È un'ideologia che trasforma tutta la vita politica, sociale e culturale in una caricatura, in qualcosa di forzato, una falsità sistematica nella quale si esprimono solo banalità, pose, stravaganza e luoghi comuni.


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In questo numero hanno scritto:

Umberto Pietro Benini (Verona): salesiano, insegnante di diritto e di economia, ricercatore di verità
Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Giovanni Maddalena (Termoli): filosofo del pragmatismo, della comunicazioni, delle libertà. E, ovviamente, granata
Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro