I colti la chiamano disruptive innovation, cioè creare artatamente uno spazio di mercato per membri della “Famiglia”, nell’accezione di Don Vito. Il Padrino? No, il CEO. Nella fattispecie si trattava del mitico Travis Kalanick. Appena costui ebbe completato il lavoro (sporco) di posizionamento sul mercato, nel 2017 il Board Uber lo licenziò, riempiendolo di quattrini (dovuti). Così, forse a sua insaputa, si trasformò nel capro espiatorio societario, a futura memoria. Ora, 2022, la storytelling prevede che è giunto il tempo della “sanificazione” del business Uber. Ergo, “fuga” di documenti, pesante intervento “critico” dei giornali di sistema. Tutti si mondano dai peccati passati, scaricandoli sul vecchio CEO, così la Giustizia ha vinto ancora. Ma il business non si tocca, quelli gabbati da UberPop resteranno gabbati. A qualcuno verrà mai in mente di applicare la nostra legge 109/96 per il riutilizzo pubblico dei beni sequestrati ai mafiosi?
Dopo aver scritto svariati Camei sul tema UberPop-Tassisti, nel 2016, quindi un anno prima dell’intervento del Board Uber, ne pubblicai uno sulla “puzza” percepita. Sia chiaro, allora non avevo alcuna prova, però immaginavo che sarebbe stato un gioco da ragazzi per Uber, e un’eccellente modalità di comunicazione, cavalcare politicamente le successive ovvie proteste dei tassisti. Questi avrebbero usato la violenza, confermando la loro natura di “brutti, sporchi, cattivi”. In fondo era solo il mio vecchio naso che fremeva: certi business, certi CEO, mi “puzzano” fin dalla loro prima apparizione. Nessun merito, sia chiaro: una vita lunga e piena nel business, da apòta in purezza, la mia.
Allora mi limitai a sottolineare come il modello di business UberPop non avesse nulla di innovativo, salvo l’approccio al conto economico. Mi sfuggiva però perché Uber facesse enormi investimenti sulla lobbying per “superare leggi e regolamenti”. Poi capii. Il modello era banale: imporre a un “miserabile” tassista (nel frattempo, demolito come categoria dalla stampa di regime) una tassa che pareva una tangente, essendo pari al 20% dei ricavi (sic!), non degli utili! Trattandosi di un servizio pubblico, costui doveva soggiacere per legge a impeccabili regole amministrative, sanitarie, di tassazione, etc. Ovvio che se il suo conto economico avesse retto alla tassa Uber del 20%, e ai prezzi da Uber imposti, c’era da esultare. Era possibile? No, era tecnicamente impossibile (ora “The Uber Files” lo hanno dimostrato, seppur 13 anni dopo). Quindi, il buon Travis si sarà detto: interveniamo sulle leggi e sui regolamenti con la disruptive innovation, ergo con gli obici della lobbying.
Così fu. A quell’epoca la lobby Uber si era scatenata, soprattutto in Francia (Governo-Hollande-Macron) e in Italia (Governo Renzi). Emmanuel (ai primi vagiti politici, ma come banchiere d’affari già culturalmente attrezzato) & Matteo, sorretto da un’inesausta foga riformatrice, da come parlavano e si muovevano, mi parevano affascinati dalla disruptive innovation. Allora mi permisi (era il 2016), dai miei infinitesimi interstizi, di suggerire, per evitare “furbate Uber”, dei paletti di tipo operativo-procedurale. Quindi feci, non richiesto, quindi gratis, una proposta di execution per Palazzo Chigi. In soldoni, si trattava di riscrivere procedure e conseguente conto economico affinché, banalmente, il tassista e Uber, nella nuova configurazione di business, rispettassero la legge, pagando entrambi le tasse. Nessuno mi rispose, ed io, non avendo mai fretta, sorrisi.
Sei anni dopo, grazie al Guardian, scopro, con un sorriso, che la colta e geniale disruptive innovation di UberPop era in realtà un’organizzazione para-mafiosa, un arcipelago popolato da politici-funzionari birbanti e da imbarazzanti attività lobbistiche. Comunque, se fosse andata male, il colpevole-capro espiatorio era già pronto, incartato e infiocchettato: Travis Kalanick. E i reati? Prescritti, of course?