L'America


Schiavitù e aborto: se calano i veli legali e semantici è guerra civile

Nel 1853, uno schiavo fece causa al suo padrone. In nome del suo diritto alla libertà lo fece in una corte dello Stato del Missouri. Dopo quattro anni ci fu la sentenza della Corte Suprema Federale (cfr. Dred Scott v. Sanford).

Nel “modus vivendi ante bellum” la schiavitù riguardava solo gli Stati del Sud. Occorre però ricordare che la schiavitù comportava sì la privazione della libertà ma altri diritti erano loro concessi: per esempio non era permesso ai padroni uccidere uno schiavo, il padrone doveva mantenerli in vecchiaia, lo schiavo aveva diritto a possedere beni e proprietà, alcuni avevano conti in banca, un’infima percentuale riusciva a diventare un cittadino libero “comprandosi” la libertà. Inoltre, riconoscevano a loro il diritto di rivolgersi ai Tribunali, come fu nel caso di Dred Scott.

La sentenza della Corte Suprema fu sconvolgente. Scott domandava la libertà  perché era stato portato in territorio federale, cioè in un territorio esente da leggi che confermassero la schiavitù. I giudici volendo negargliela, e non avendo appigli giuridici, né nelle leggi federali, né nella Costituzione federale, fecero una “furbata”. Vero che la Costituzione non parla di razze, ma di certo fu scritta da uomini bianchi senza parlare di negri… Dunque era per uomini bianchi… Dunque - ed ecco le “parole fiammifero” - secondo la Costituzione, l’uomo nero non ha diritti che l’uomo bianco sia obbligato a rispettare. Possibile? Neanche un diritto? No. La Corte Suprema fu chiara: “no rights”, nessun diritto.

Al Nord, la sentenza confermò il peggio che la gente avesse mai pensato degli schiavisti del Sud. Dato che la sentenza era di carattere federale, e dunque applicabile a tutto il territorio nazionale, dedusse che avrebbe permesso la schiavitù ovunque. Al Sud, si pensava più a questo che non a “bestializzare” ancora di più gli schiavi. Dunque, la questione divenne se  la schiavitù - in una forma più crudele di prima - si sarebbe insediata in tutto il Paese o sarebbe abolita. Per sciogliere il nodo c’era un solo modo: la guerra. E guerra fu.

Il 22 Gennaio 1973, la Corte Suprema decidendo la causa di una certa Jane Roe contro Henry Wade procuratore della contea di Dallas, Texas, che proibiva gli aborti, ragionò che una lettura “in penombra” del Quarto emendamento della Costituzione Federale (anti perquisizioni di persone, luoghi, e documenti) fosse sufficientemente larga per escludere ogni ingerenza di agenzie governative in qualsiasi decisione di una donna gravida di abortire o meno. Dopo di che, la sentenza  legifera come tali ingerenze possano essere permesse nei tre trimestri della gravidanza. Infine dichiara che nessuna ingerenza è permessa se incide sulla salute - anche mentale - della madre.  (“Salute mentale”, ab initio, voleva dire semplicemente, “se la sente o no”). Ciò significa dire aborto a volontà, sempre, e in ogni circostanza. Durante i seguenti 45 anni, il sistema legale americano si è storto in chissà quante varianti, e la Corte Suprema è diventata un campo di battaglia per sapere quali limiti all’aborto ci potessero essere.

Nel frattempo, la società americana si è divisa sul tema dell’ aborto più di quanto lo era sulla schiavitù ai tempi della Guerra Civile. La spaccatura è culturale, profonda, amara, sdegnosa, e lo è da entrambe le parti. In più, l’aborto è diventato il focus, il totem, cioè tutto ciò che divide una parte degli americani dall’altra. Sempre più, le relazioni sociali  e specie i legami sentimentali si annodano tra persone che la pensano in modo simile su questo tema.

Negli ultimi mesi stanno accadendo avvenimenti politico-legali pari alla sentenza sul caso Dred Scott del 1857 - avvenimenti che, risolvendo le ambiguità del modus vivendi post sentenza Roe v.Wade, stanno mettendo ambedue le parti davanti a scelte fondamentali, con le quali i compromessi sono diventati impossibili.

Dal punto di vista tecnico legale, la sentenza Roe v.Wade fa “schifo” anche ai pro abortisti. Buttarla nella pattumiera richiederebbe solo amor proprio professionale, insieme a tanto coraggio politico. Negli ultimi anni, seguendo la guida intellettuale del giudice Antonino Scalia, nell’avvocatura americana ci sono stati movimenti in questo senso. In più, l’opinione pubblica continua, inesorabilmente, a spostarsi contro l’ aborto. C’è pure, sotteso, un rilevante fatto demografico. I pro-vita si riproducono, gli abortisti lo aborrono. Dunque, questa  sentenza non rimarrà  in vigore per molto.

Gli Stati, a guida Partito Democratico, stanno legiferando ponendo argini per proteggere l’ aborto. Così facendo, a loro insaputa, chiariscono la realtà dell’aborto - cioè’ la “disumanizzazione” del bimbo quanto la sentenza Dred Scott aveva chiarito che la schiavitù non era altro che la “disumanizzazione” dell’uomo nero.

Ed eccoci all’oggi. Il mese scorso lo Stato di New York ha varato una legge secondo la quale l’aborto è lecito per qualsiasi ragione, se la madre lo vuole, anche nel tratto finale della nascita, e pure dopo la nascita del bimbo. La legge non considera omicidio chiunque uccida un bimbo nell’utero nel corso di un assalto alla madre. Ciò può essere giusto? Solo quando e perché il bimbo non ha diritti che la madre sia obbligata a rispettare. Nessun diritto? No, nessuno. Se questo non fosse stato abbastanza chiaro, il governatore della Virginia, spiegando e sostenendo un progetto di legge simile, ha affermato, davanti alle telecamere, che il neonato una volta uscito dall’utero dalla mamma, può essere “rimosso” mentre mamma e medico decidono, se le piace o no, se vuole tenerlo o scartarlo o usarlo per fini scientifici. Siamo al trionfo della volontà umana sulla natura.

La cultura dell’aborto e della schiavitù, del potere sulla natura, può permanere accanto al suo contrario finché  rimane protetto da veli legali e semantici. Non appena cadono i veli, c’è la guerra, fredda o calda che sia.

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