La scelta di questa traduzione ha il pregio di ripensare il dramma della sorte dei Labdacidi, del quale la tragica vicenda di Antigone è solo un momento, a partire non tanto dalla manifestazione esteriore e accidentale degli eventi tragici, quanto dalla profonda crisi sotterranea che colpisce l’Io dei personaggi. Prima della morte di Antigone, condannata per aver seppellito il fratello Polinice violando i decreti di Creonte, prima dell’uccisione di Eteocle e Polinice, morti l’uno per mano dell’altro, c’è, infatti, la male che colpisce Edipo e, con lui, tutta la discendenza. Figlio e, allo stesso tempo, consorte della propria madre, Edipo altera il proprio ruolo e distrugge la propria identità di prole e di coniuge. Generando una duplicazione dei legami di sangue che impedisce ogni genere di catalogazione identitaria, Edipo segna irrimediabilmente e visceralmente le sorti dell’intera famiglia. Poiché condannati a essere non solo chi sono, i Labdacidi sono dei “fuori parte” e nella loro carenza del sé si annida il germe della loro infelicità.
Nell’ Antigone, Sofocle mostra particolare cura nella descrizione linguistica e tematica non solo del rapporto di condivisione identitaria che intercorre tra la protagonista e il padre (dal quale riceve in dono un’eredità caratteriale che preannuncia la fine tragica), ma anche del legame complesso che stringe tra di loro i figli-fratelli.
«O volto di Ismene che è il mio, lo stesso / di mio fratello, sai il Cielo quale dei mali / d’Edipo su noi ancora vive non chiuda?» (vv. 1-3).
La grandezza di questo inizio tragedia è tutta racchiusa in un solo denso vocabolo, dimostrazione della profonda ricerca di ambiguità semantica operata da Sofocle. Il termine sul quale Giovanni Greco stesso si sofferma, nell’analisi dell’apostrofe ad Ismene, è αủτάδελφος (autàdelphos) “del proprio fratello”. L’enfasi posta dal prefisso αủτ-, dal valore riflessivo e personale, è accresciuta dalla presenza, poco prima, dell’attributo κοινόν (koinòn), “comune”. Entrambi gli aggettivi si riferiscono a κάρα (kàra), il volto, qui il volto di Ismene. Nella tranquillità precaria che precede il capitolare degli eventi, Antigone anticipa allo spettatore una delle chiavi tematiche fondamentali alla comprensione del tessuto conflittuale alla base dell’intera tragedia. Il volto di Ismene ha qualcosa di “comune” a quello di Antigone, ma al contempo il volto di Ismene è il volto del fratello, il fratello di entrambe, un fratello che è e contemporaneamente non è solo un fratello. La comunanza che Antigone intercetta tra il proprio volto e quello dei fratelli trascende ogni mera somiglianza genetica: in quel sovrapporsi di immagini, in quel coesistere di visi è nascosta la sovraumana alterazione dell’albero genealogico, la trasmissione di una totalizzante sofferenza, l’incompletezza di sé. Nella trasgressione che la condanna a morte, Antigone sembra farsi incarnazione del fratello Polinice, quel Polinice che è rovescio di Eteocle. Se è possibile, infatti, guardare ai due fratelli Eteocle e Polinice come a due diversi paradigmi (l’uno in favore, l’altro contro la città di Tebe, l’uno amico, l’altro nemico), le due sorelle, Ismene e Antigone, non sono nient’altro che la versione femminile dei due figli-fratelli di Edipo. La duplicazione identitaria, che fa di ogni fratello lo specchio del proprio corrispettivo femminile, sancisce e rinnova, dunque, quella ferita primordiale, quella pecca genetica, quel male ereditario che si annida proprio nel doppio, nella frantumazione dell’uno, e, ancora prima, nel drammatico, proprio perché duplice, passaggio di Edipo nell’utero materno.