Chiacchiere


Due cose brutte al prezzo di una

Giovedì 16 aprile scorso, all’età di 70 anni, si è spento Luis Sepúlveda. E questa è la prima cosa brutta. È una vittima illustre del Coronavirus e lascia un vuoto profondo in tutta la comunità di lettori e seguaci che nel tempo lo hanno seguito, letto, ascoltato, ammirato.

La seconda cosa brutta: c’è una regola non scritta nel buon senso comune, dice che nel dubbio è meglio tacere. E se sei una sorta di caporale di giornata del giornalismo, la stessa regola ti suggerisce ancora più chiaramente di non provare nemmeno a mettere il naso fuori dalle acque sicure dell’informazione copia-incolla, a maggior ragione, poi, se stai governando quella che qualcuno tempo fa ebbe l’intuizione di chiamare "piccioletta barca". Il problema è che molto spesso non ti rendi conto di quanto sia piccioletta ed è così che come niente finisci un metro e mezzo oltre il cartello del limite acque sicure, a cavallo di una papera gonfiabile ad affrontare i primi flutti marini appena insidiosi ma già abbastanza grandi per inghiottirti.

Il fatto: sul sito di TGcom24 (i professionisti dell’informazione) per un lasso di tempo breve ma affossante è apparsa la notizia che era morto "Luis Sepúlveda, autore di Cent’anni di solitudine". Non importa se l’articolo sia stato on line un secondo o un’ora, nessuno può permettersi un "orrore" del genere. E non c’entra il fatto che adesso l’informazione è istantanea e la divulgazione lo è ancora di più; è un errore che nasconde in sé una profonda ignoranza e una totale mancanza di rispetto, in primis, verso il ruolo di giornalista.

Al poco zelante autore di TGcom24 sarebbe bastato rimanere saldo al timone della paperella, non avventurarsi oltre la prima riga e fare come fanno in tanti, ovvero un bel copia incolla da Wikipedia e via, smaltito anche per oggi il dovere di informazione. Sarebbe stato un articolo inutile ma innocuo. E invece no, è andato per assonanza e per errato sentito dire. Io me lo immagino così il suo monologo interiore: "Ma dai è morto Sepúlveda, lo spagnolo… eh in Spagna ha colpito duro il Corona… deve essere quello che ha scritto quel libro sulla solitudine… fra l’altro argomento attualissimo oggi AI TEMPI DEL CORONAVIRUS". Click. Fine.

Il problema, amico mio, è che l’hai ucciso un'altra volta. Non certo per averlo accostato a un capolavoro della letteratura mondiale (avresti potuto fare di peggio, non so, dire che era l’autore della biografia di Barbara D’Urso o di Paolo Brosio), ma perché Sepúlveda, vedi, è quello che faceva parte della guardia personale di Allende e che fu arrestato a La Moneda e torturato durante il Golpe di Pinochet nel 1973. È lo stesso Sepúlveda che, indomito, si unì alle Brigate Simon Bolivar nel 1979, appoggiando il Fronte sandinista nella guerra di liberazione, quello che raccontò la perfidia del Topo che voleva fare incetta di rifiuti e cibo e che minacciava Amburgo, ma anche la storia del gatto Zorba che aiutò la Gabbianella a spiccare il volo.

Sepúlveda, insomma, è "un nome da torero". È colui che a domanda "Che cos'è la libertà per uno scrittore?" rispose "Non è facile definirla. A volte penso alla responsabilità di scegliere le parole giuste". Appunto. Il tuo pressappochismo, caro giornalista di TGcom24, ha il sapore dell’ignoranza semi-consapevole e quindi dell’offesa. Le rettifiche dell’editore poi bastano appena per coprire di un bianco alone di vergogna il disastro appena compiuto, un po’ come quando negli anni Ottanta spruzzavamo il Viavà sulla macchia di sugo, e rimaneva un pasticciaccio bianco e appiccicoso che non veniva più via.

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Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
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