Bruxelles


Volevo chiamarmi Gustafsson

Le prime mail erano scettiche: “Spero che questa mia La trovi bene, di questi tempi [current times]”. Poi, qualche giorno dopo i “times” sono diventati challenging, sfidanti; poi, con flemma anglosassone e prudenza slava si sono trasformati in demanding, esigenti.

A metà dell’ascesa delle curve di infetti e morti i tempi si son fatti prima particular, e poi unpreceded, senza precedenti. Sono seguiti trying, che mettono alla prova, intense, e poi (ma forse è stata una svista di chi scriveva - o forse è stata semplice saturazione) ho ricevuto anche un paio funny, buffi.

Ora vedo, a seguito di un vacillante ottimismo contingente e di una smodata paura di come stiamo vivendo e di come vivremo a lungo, più di qualche volta introdurre il concetto di new-normal. New-normal è una condizione a lungo termine che non c’è bisogno di descrivere qui perché la viviamo tutti. Forse qualche ipotesi su “the-world-to-be”, il mondo che sarà, metterebbe conto farla, ma non ho ancora perso il senso della misura e delle proporzioni - specie quelle che riguardano le mie capacità e il mio ego. Senza dubbio, però, la nuova normalità è una condizione personale che si fa sociologica e, nel new-normal serve già ora rivisitare a fondo pratiche e forme.

Per me fare lobby, l’arte di “passare messaggi”, di questi tempi richiede doti particolari e il recupero delle arti oscure dell’uso del linguaggio, dell’esposizione chiara e del superamento delle ambiguità che permettono a un’idea di crescere, farsi strada, insinuarsi in sguardi e mezze parole con un caffè in mano nella pausa di una conferenza. Oppure con la promessa “ti mando due bullet-points” come memo. Siamo privati del networking, senza dibattiti all’ora del lunch o del dinner, senza mano stretta attorno al gomito dell’interlocutore a rimarcare la confidenzialità di un momento, senza un “trovi tutto qui” passando una cartellina neutra e anonima con dentro il lievito madre di un emendamento che nasconde un interesse preciso, ma impossibile da verbalizzare in una conversazione ufficiale.

Le web conference richiedono un’etichetta stringente secondo le piattaforme utilizzate; non sempre riesci a vedere in faccia tutti quelli che siedono attorno al tavolo virtuale. E quindi non cogli il non verbale di tutti, la smorfia e l’increspatura di labbra o sopracciglio, non puoi modulare quanto dici sulle reazioni degli altri.

Ho imposto, in quelle che convoco io, di attivare il video quando si parla. E io mi tengo per trasparenza, sempre visibile. Per gli altri credo che si applichino alla vecchia perversa regola della chat su Whatsapp/Telegram o nella chat privata prevista dalla piattaforma usata per commentare o criticare quanto si dice. Avviene anche dal vivo, ma te ne accorgi e puoi ironizzare e provare a bloccare il meta-canale di comunicazione. Così, è un disastro: non ti accorgi mai se l’altro stia per mollare; o sia il momento che sia tu a mollare. Per non parlare delle distrazioni per cui posti un commento sulla chat pubblica invece che sulla privata, se non l’hai fatto apposta per manipolare un po’ la situazione.

Prendete i vertici di queste settimane, senza “a-latere” e senza la diplomazia da retrobottega che fanno i rappresentanti permanenti, gli ambasciatori. Le chiacchiere informali, bilaterali al volo, multilaterali limitati in piccoli crocchi che impediscono che la tela si sfilacci sotto le ingenuità o gli errori e le malagrazie dei capi di stato e di governo, le sfaccettature di una riunione del Consiglio, con la cena, il dopocena, i corridoi, gli arrivi, le partenze, i messaggi nelle conferenze stampa, la loro sequenza e la loro gerarchia...

E’ sicuramente andata così anche con la lunga pantomima del pre-pasquale del MES, dei Coronabond e dei quattrini che servono, non solo all’Italia, per uscire dal pantano delle migliaia di morti, dall’’immorale e solitaria ecatombe degli anziani innocenti e dei medici che non hanno rinunciato a pensare a Ippocrate; e le persone che hanno preso sul serio il loro mestiere e il contratto psicologico con la società prima ancora di quello collettivo.

Nelle pieghe delle conversazioni condotte sui sistemi di conferencing della Commissione e del Consiglio, blindati agli esterni per timori di hackeraggio, è identica la condizione, il disagio, l’esposizione all’equivoco, all’intonazione che si può sbagliare, all’interprete che sdrucciola e trova un sinonimo inappropriato - anche se non dovrebbe.

Circolano rapporti di ogni tipo: ne ho visti una dozzina, tutti credibili, tutti un po’ anonimi. Quelli di Big Pharma li fiuti da lontano, ma non per questo andavano, o vanno sottovalutati. Ho visto modelli matematici e algoritmi in odore di “servizi” di varia nazionalità (alcune distrazioni nella traduzione in inglese spesso rivelano il DNA della lingua originale e delle valutazioni che recano). E poi le carte “consolidate” della Commissione, il succo delle ipotesi più credibili e ritenute più affidabili; esercizio lodevole, ma pericoloso e comunque alla mercé di biscazzieri della manipolazione politica.

Ha ragione Ruggeri, l’Editore, quando rileva che Lagarde o UVDL, se avessero fatto gaffes nelle loro improvvide dichiarazioni dispregiative sull’Italia, sarebbero state davvero apertamente censurabili da tutti. No, non ne hanno sicuramente commesse, bensì hanno inviato messaggi non cifrati. Lagarde ha definito il ruolo della Bce sugli spread il 12 marzo, Von der Leyen ha stoppato l’ipotesi di covid-bonds a partire dal 28 marzo. Un repetita iuvant di non poco conto.

Andrebbe chiesto a Paolo Gentiloni il contenuto dell’appunto che si è scritto (e ha infilato nella cartella che ne contiene a decine, e che certamente serviranno per le sue memorie) sulla fatica che mi dicono abbia fatto per mostrare a Ursula l’altra faccia della luna e portarla gradualmente su altre posizioni.

Sono in 10, i Commissari che presidiano il palazzo Berlaymont impenetrabile da esterni e anche da funzionari non ammissibili anche ai più alti livelli e nei gabinetti rilevanti. Si scambiano informalmente valutazioni e sensazioni, sono straordinariamente prossimi come non lo sono mai stati, privati di quasi tutti gli impegni pubblici. Mi dice un influente navigatore di Commissione: è come se il collège fosse riunito in permanenza e non solo il mercoledì. Nell’informalità degli incontri accade quello che le conference call con immagini della nuova normalità impediscono. Nella sala dell’ultimo piano la cui forma, come la definì l’inviato dell’Echo, “evoca un cucchiaio rovesciato, disegnato per ospitare l'incontro settimanale dei commissari nella sala Jean Monnet”, così come nell’adiacente sala da pranzo i toni sono sempre civili e le voci non si alzano mai oltre i 60 decibel della conversazione normale. E nella sorta di bunker di lusso che è, protetta com’è da recinzioni metalliche e spessi vetri e sistemi di sicurezza a che permettono di ospitare anche un presidente USA, con il suo improbabile lampadario e la sua allure austera l’informalità, e l’onestà intellettuale e delle parole, sono protette.

Ma anche Paolo Gentiloni, e tutti quelli che l’hanno preceduto, pur nella loro essenza di persone di prim’ordine, devono sentirsi ogni tanto, e anche in tanta informalità, come ci siamo sentiti tutti noi che certamente cretini non siamo, quando rappresentiamo il paese o gli interessi di un settore industriale, esibendo il nostro nome inequivocabilmente italiano.

Puoi parlare un inglese forbito, privo di accento, e pertinente. Puoi dire cose che aprono le porte di università internazionali e di conferenze esclusive e di gran livello; possono apprezzare le tue capacità e le soluzioni che riesci a trovare in una nodosa trattativa oppure la capacità di uscire da situazioni vicine allo stallo... Hai la tua reputazione, hai conseguito i tuoi risultati, hai scalato le gerarchie. Ti confronti quotidianamente con le bizze di altre 27 nazionalità (gli inglesi permeano ancora le istituzioni) - fatto sta che se tu dicessi le stesse cose chiamandoti, per esempio, Gustafsson, sarebbe, in questi tempi unusual, insoliti, e poi nella new-normality, tutta un’altra cosa.

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