Il Cameo


La guerra è analfabeta, la poesia scrive (1)

Questo è il primo di alcuni pezzi che usciranno sulla Guerra, letta con le categorie culturali e organizzative di IDEA.

R. aveva nove anni quando la casa ove abitava a Torino fu distrutta da una bomba. Si salvò perché raggiunse i sotterranei al primo suono delle sirene. Vivo ma terrorizzato, fuggì ad Aulla, dai nonni materni. 

Chi poteva immaginare che proprio il giorno del suo arrivo sarebbe stato quello del terribile bombardamento del 18 maggio 1944? Una bomba gli squarciò la gamba sinistra. Suo zio Brunildo, panettiere, convinse Otto Hahn, una SS di vent’anni, a usare il suo camion militare per portarlo all’Ospedale di Fivizzano. I medici gli salvarono la gamba e la vita. Per il doppio choc, per un anno non parlò, poi divenne balbuziente. Anni dopo prese un impegno con sé stesso: avrebbe scritto un libro, sulla Guerra e sulla Pace. C’è riuscito ottant’anni dopo, chiedendosi: “Si può raccontare l’eterno dilemma della Guerra e della Pace usando le categorie e le parole della Poesia?”

Questo è l’incipit del mio libro Guerra e Poesia.

È stato uno straordinario flop editoriale. Cento copie stampate, una decina vendute (grazie!), molte regalate (immagino pochissime lette) ne restano una ventina a magazzino, le ho tolte dalla vendita, entreranno nell’asse ereditario.

Intendiamoci, nessuna sorpresa, se la guerra non l’hai provata non la puoi capire, e allora blateri, blateri, dal tuo salotto-redazione-tastiera.

Specie la guerra moderna, ove leadership criminali patrizie hanno trasformato i civili in soldati (bombardandoli) e la guerra in una schifezza.

I miei amici del Patriziato li capisco. Sono nati patrizi, gli hanno instillato che nel mondo esiste una sola verità, la loro, e loro se ne sono convinti.

E capisco pure i miei amici della Plebe: hanno sognato di diventare patrizi, molto spesso solo per impossessarsi dei loro difetti.

Patriziato e Plebe non hanno studiano neppure la storia. Nelle guerre moderne, a gioco lungo, sopravvivono quelli che le guerre le perdono, non quelli che le vincono.

Un esempio per tutti: il Regno Unito. Hanno vinto la seconda guerra mondiale, a Yalta hanno dato le carte, stabilito i buoni e i cattivi del mondo, eppure hanno perso l’Impero. Oggi contano come il due di picche. Sono un popolo di reduci, culturalmente dei paria.

Persino la Svizzera che secoli fa aveva capito tutto, per non perdere qualche punto di PIL si è ridotta ad arruffianarsi con una Baronessa tedesca.

Dell’Italia taccio, per carità di patria.

Poi, improvvisamente una novità! Per la prima volta, l’America si ritrova con un Presidente (patrizio) eletto esclusivamente da plebei, con un mandato ben preciso: non entrare mai più in guerra, al di fuori dei confini americani. Sarà all’altezza?

Alle persone perbene non resta che tornare alla poesia. Perché, ricordiamolo “la Guerra è analfabeta, la Poesia scrive”.

Ho scelto una poesia, scritta nel 1898 e pubblicata nel 1904, all’inizio dell’ignobile XX secolo, le cui schifezze naziste, comuniste, alto borghesi, sono tutte lì, ben documentate dalla Storia.

É “Aspettando i barbari” di Kostantinos Kavafis (1863-1933), nella traduzione di Eugenio Montale.


«Sull'agora, qui in folla chi attendiamo?»

«I barbari che devono arrivare»

«E perché i senatori non si muovono?

Cha aspettano essi per legiferare?»

«E' perché devono giungere, oggi, i Barbari.

perché dettare leggi? Appena giunti,

i Barbari, sarà compito loro »

«Perché l'Imperatore s'è levato

di buon'ora ed è fermo sull'ingresso

con la corona in testa?»

«E' che i Barbari devono arrivare

e anche l'Imperatore sta ad attenderli

per riceverne il Duce; e tiene in mano

tanto di pergamena con la quale

offre titoli e onori»

«E perché mai

sono usciti i due consoli e i pretori

in toghe rosse e ricamate? e portano

anelli tempestati di smeraldi,

braccialetti e ametiste? »

«E' che vengono i Barbari e che queste

cose li sbalordiscono»

«E perché

gli oratori non sono qui, come d'uso,

a parlare, ad esprimere pareri?»

«E' che giungono i Barbari, e non vogliono

sentire tante chiacchiere»

«E perché sono tutti nervosi? ( I volti intorno

 si fanno gravi ). Perché piazze e strade

si vuotano ed ognuno torna a casa?»

«E' che fa buio e i Barbari non vengono,

e chi arriva di là dalla frontiera

dice che non ce n'è neppure l'ombra»

«E ora che faremo senza Barbari?

( Era una soluzione come un'altra,

dopo tutto... )».


Se i nostri bisnonni l’avessero saputa decrittare, in particolare il concetto di “barbari”, non ci sarebbe stata la Prima Guerra mondiale, e l’inferno che ne è seguito. Alla prossima puntata.

Prosit al colto pubblico e all’inclita guarnigione guerresca! (1. continua)

© Riproduzione riservata.
Zafferano

Zafferano è un settimanale on line.

Se ti abboni ogni sabato riceverai Zafferano via mail.
L'abbonamento è gratuito (e lo sarà sempre).

In questo numero hanno scritto:

Umberto Pietro Benini (Verona): salesiano, insegnante di diritto e di economia, ricercatore di verità
Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Emanuel Gazzoni (Roma): preparatore di risotti, amico di Socrate e Dostoevskij, affascinato dalle storie di sport
Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite
Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro
Guido Saracco: già Rettore Politecnico di Torino, professore, divulgatore, ingegnere di laurea, umanista di adozione.