Corsa alla Casa Bianca


Il meglio e il peggio delle conventions dem/rep

Ecco alcune riflessioni sulle due conventions dem/rep in vista delle Presidenziali 2020.

La Convention del Partito Democratico statunitense, la prima on line nella storia, ha attirato giustamente infiniti commenti: ha incoronato Joe Biden e Kamala Harris come il ticket democratico per la corsa alla Casa Bianca e, come d’abitudine, ha rialzato...

... per qualche giorno i sondaggi dei “blu” che li vedevano già in testa rispetto a un Trump provato, come tutti i leader occidentali, dalla difficoltà o dalla incapacità a gestire la crisi pandemica.

Tutti, perfino Fox News, acerrima nemica dei democrats, hanno considerato la Convention un successo. In effetti, i discorsi dei vari Obama (lei e lui), Carter, Harris, Biden (lei e lui) hanno dei bei contenuti, che sono andati a pescare nella tradizione dem autenticamente popolare. Per tutto il Novecento i dem sono stati il partito delle minoranze: oltre che dei neri, dei latini, e prima di loro degli italiani, dei polacchi, degli irlandesi; ma soprattutto dei cattolici e dei lavoratori dipendenti. Insomma, i dem erano il partito dei socialmente deboli rispetto alla potenza calvinista, bianca e protestante. Hanno smesso di avere l’appoggio unanime di questa parte dal 1974 quando la sentenza sull’aborto ha spaccato a metà i due partiti tradizionali. Da allora fino all’apogeo della presidenza Obama, i democrats hanno sposato sempre più l’agenda radicale dei diritti civili lasciando allo stesso tempo decadere quella dei diritti sociali. Tuttavia, è a questa radice popolare di attenzione ai problemi sociali che hanno fatto appello i leader democratici, dicendo poco o nulla dei problemi recenti che non nascono da quella gloriosa storia ma da quella più recente delle contraddizioni del liberalismo progressista: dagli scontri che da due mesi caratterizzano alcune città americane ai problemi lavorativi creati dalla globalizzazione selvaggia ben prima che dal Covid, passando per un sistema educativo spesso paralizzato dal discorso politicamente corretto. I discorsi dei leader, forse per recuperare i più anziani, come ha fatto notare in un bellissimo pezzo Maria Laura Rodotà su Linkiesta, hanno fatto appello all’antica radice popolare (e persino alla fede in Dio!) in maniera emotiva, lasciando da parte i problemi di un’impostazione ideologica contraddittoria. Ma i discorsi erano senz’altro belli e ineccepibili per chiunque si riconosca nella lunga tradizione americana.

Se però guardate questi discorsi e non li leggete o, meglio ancora, se togliete l’audio mentre li guardate, avrete un’altra impressione. A parte l’ex-presidente Obama, uno dei più grandi presidenti-oratori di sempre, gli altri guardano fisso nella camera, come probabilmente hanno detto loro di fare. Gesticolano ma tengono gli occhi immobili e fissi, ottenendo un curioso effetto marionetta: sembra che ci sia un punto davanti a loro che li tiene attaccati mentre bocca e mani si muovono. È un banale problema legato all’essere on line e non in presenza ma l’effetto è grottesco e il messaggio è che, come per le marionette, le parole non appartengono a chi le pronuncia.

Dal punto di vista comunicativo, la scelta è rischiosa. Trump è il campione della comunicazione opposta: indifferente alle parole che dice – spesso contraddittorie – e concentrata su spontaneità e immagine. I dem hanno puntato sulle parole e sui simboli, sui discorsi generali; Trump punta sempre su immagini e icone (soprannomi per gli avversari e i temi, modi di dire, sbuffi e smorfie), sui temi particolari e sugli attacchi personali. Data la comunicazione vigente nel mondo d’oggi, molto più iconica che simbolica, la scelta dei dem rischia un tragico effetto boomerang e il risultato della Convention potrebbe essere molto diverso da quello descritto dagli analisti.

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La Convention repubblicana ha il vantaggio di essere in gran parte in presenza e si svolge come previsto dal copione: demonizzazione dei democrats almeno quanto quelli avevano demonizzato la presidenza attuale, difesa dell’americanismo nei suoi aspetti più crudi come il possesso delle armi e la lotta dura all’immigrazione, difese inverosimili del modo di gestire l’arrivo del Covid-19, in cui Trump non si è mostrato migliore dei suoi omologhi in tutto il mondo, pur avendo a disposizione più tempo, soldi ed energie. I rep a noi europei sembrano sempre strani con i loro discorsi un po’ sopra le righe su Dio, America, libertà assoluta, famiglia.

Gli occhi fissi nella telecamera della Convention dem si vedono meno, vista la buona percentuale di discorsi in presenza. Molti discorsi però sono semplicemente slogan, che suonano vuoti perché si capisce che nascono dal solo interesse di compiacere il capo. Il migliore alla fine è ancora il presidente, insieme alla moglie Melania. Trump è se stesso, nel bene e nel male. Il male lo sappiamo: non ci tiene affatto a dipingere la realtà accuratamente, fa affermazioni che non sono mai precise, non gli importa di contraddirsi, attacca in continuazione gli avversari sul piano personale, accentra tutto su se stesso. Esiste anche il bene, sebbene i giornali incredibilmente non lo vedano da 4 anni lasciandosi sfuggire il perché di un’elezione, che si sarebbe trasformata senza dubbio in una rielezione senza il Covid-19. Il bene è che tutto sommato, alcune cose che dice sono sostanzialmente vere anche se non precise: l’economia americana è andata meglio, ci sono stati molti più posti di lavoro fino all’arrivo “della piaga cinese”, l’America non ha iniziato nuove guerre, Israele ha stretto un trattato di mutuo riconoscimento con un Paese arabo in più, l’Isis è stato sconfitto. Insomma, il bene è che, al di là dei titoli dei giornali, è stata una normale presidenza repubblicana della vecchia guardia, quella che veniva prima di Ronald Reagan e, soprattutto, prima dei Bush e dei teo-con: molta economia e molta finanza e poco interesse all’estero, molto appoggio ai grandi industriali e alla middle class e poca cura sociale, eccetto che per l’aspetto lavorativo, molto nazionalismo e poco internazionalismo. Trump non fa mistero di tutto questo e lo esprime a modo suo, riuscendo a sembrare sincero e spontaneo, da americano medio che parla ai suoi pari, senza far prediche alate. La moglie Melania lo ha spiegato in modo perfetto: “che vi piaccia o no, sapete sempre che cosa pensa il vostro Presidente”.

È il suo segreto, che piace molto alla base repubblicana e non dispiace a molta parte del mondo popolare democratico, quello che non ha fatto l’università. Con l’eccezione di Giuliano Ferrara, coerentemente teo-con, i commentatori internazionali spesso non hanno colto il fatto che Trump sia soprattutto l’anti-establishment all’interno dei repubblicani. Il vecchio establishment repubblicano faceva lunghe prediche sui principi per poi arrivare a soluzioni quasi identiche a quelle dei dem. Trump rispetta pochi principi ma ne impone pochissimi e ne predica ancor meno: contratta tutto, da mercante in fiera, ma lo fa senza fingere di essere migliore di quello che è.

Gli americani a quanto pare apprezzano: il presidente è sotto di poco nei sondaggi nonostante tutto e, comunque vada, ha imposto ai dem la sua agenda, almeno sull’aspetto lavorativo del riportare le aziende in patria e considerare come unico nemico la Cina. Se l’economia riprende a tirare, ha buone chance di essere rieletto anche perché, in silenzio, molti americani sono perplessi sulla svolta sempre più radicale dei dem, che Joe Biden, il moderato per definizione e vocazione, non sembra essere in grado di frenare.

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Zafferano

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