Sedute alla caffetteria all’aperto, in una bella giornata d’autunno, a fine mostra, ci siamo rese conto che andiamo all’Hangar sempre insieme. E’ uno strano posto, un po’ sospeso, quando sei dentro potresti essere a Londra, Berlino o New York tanto è “luogo contemporaneo” e per quel che riguarda le mostre, lo stesso.
Lo spazio è smisurato, da classica ex fabbrica (di locomotive) riconvertita alla cultura, di ben 15.000 metri quadri e connotata da un’architettura tale che è possibile ospitare solo grandi installazioni. In uno degli spazi espositivi al suo interno, vi è un’area dedicata a un’opera permanente, “I Sette Palazzi Celesti” di Anselm Kiefer, sette torri di cemento armato da “day after” della scultura e dal fascino un po’ cupo, contornate da tre quadri enormi ma ahimè deboli.
Amo altri lavori di Kiefer, non questo. Ad onor del vero all’Hangar ho quasi sempre visto mostre di forte impatto, e visto lo spazio immenso, qualsiasi opera imponente si anima ancor di più. E’ una tendenza che viene chiamata “immersiva”: lo spettatore naviga in questo oceano visivo e sensoriale, perdendosi. Certo, bisogna amare un certo gigantismo, l’effetto teatrale dell’installazione, da cui anche se scettici, si rimane spesso soggiogati.
Chen Zhen, artista in bilico tra Oriente e Occidente, ha lavorato fin da subito in quella direzione, facendo parte di quel gruppo di artisti concettuali, il cui maestro è Joseph Beuys, in cui il ready-made di memoria duchampiana si amplifica, slegandosi definitivamente dall’estetica tradizionale per entrare nella dimensione del sacro. L’arte diventa, o vorrebbe diventare, taumaturgica.
Non tutto deve essere pittura, ci mancherebbe, e apprezzo la sperimentazione di quegli artisti che hanno veramente inteso di cercare la verità, in quel periodo storico ( gli anni ‘70) che però penso sia ormai relegato al passato. Alla fine Chen Zhen o comunque il suo approccio all'arte, anche se denso, mi appare polveroso. La pittura, invece, che è senza tempo, resta paradossalmente sempre attuale.