L’autunno per me è in questa poesia di Prèvert, che da il titolo alla sua collezione di liriche e musicata e poi cantata da Yves Montand nel 1946, “Les feuilles mortes”. Quando il mio sguardo si posa sugli alberi dai colori accesi, dalle tinte rosse vermiglio e carminio, gli arancioni, i gialli, le terre, io inizio a ricordarla come un refrain. E quando cammino e allontano le foglie con i piedi e sbaraglio quel manto colorato e leggero, come da bambina, la ricordo. Perché anche in città la natura ci regala attimi di pura bellezza, passionale e intensa … uno spettacolo, quello che oggi per moda viene definito foliage: bene quando le mode invitano all’osservazione del bello, dell’immensità della natura.
Ma c’è un’altra opera che mi sovviene ed è “Il Faggeto” di Gustav Klimt, del 1903. L’ho visto e frequentato all’Albertinum Museum di Dresda ed è un quadro che è l’apoteosi dell’autunno. I paesaggi di Klimt sono poco noti ma audacissimi e meno legati all’Art Nouveau rispetto ai più famosi ritratti: da un lato egli coglie la lezione di Monet nell’osservazione della natura, dall’altro ne forza le tinte, fin quasi verso l’espressionismo. Quel quadro meraviglioso, davanti al quale ho passato del tempo, ha anche uno stratagemma interessante: l’ordine in cui è suddiviso il paesaggio è sovvertito. L’orizzonte infatti è molto rialzato, e consente alla vegetazione in primo piano di invadere completamente la tela. Del faggeto infatti non si vedono che i tronchi chiari e il tappeto di foglie cadute, dando l’idea di un giardino assai curato. La sua ricerca non è en plain air come quella degli impressionisti, né è quella del seguire il mutare degli elementi, piuttosto è quella di cercare dei nuovi motivi, nuove soluzioni formali. La figura umana è assente, sostituita dall’armonia sospesa del creato.