Il tema della Vanitas è un elemento portante di tutta la tradizione europea all’interno del genere della Natura morta, il cui intento era quello di porre l’uomo di fronte alla vanità delle questioni materiali, invitandolo invece a prendere consapevolezza della brevità della vita e della propria mortalità. È un tema forte, di grande pathos. È impossibile osservare un teschio senza porsi delle domande su di sé e sul proprio destino, e proprio per questo è un genere molto amato dagli artisti.
La cosa interessante di “Mass”, a differenza delle Vanitas tradizionali, è che si adatta allo spazio: a seconda dell’architettura della sede espositiva Mueck ogni volta cambia la struttura dell’installazione e ridispone i teschi, orchestrando pieni e vuoti, la cui prospettiva cambia nel passaggio. È una recente evoluzione del lavoro di Ron Mueck, un artista che io amo molto e che ho visto tante volte in mostra a Venezia, a Londra, a Parigi, compresa una collettiva di qualche anno fa dal titolo “Mondo reale” a Milano, alla Triennale.
Ora la Triennale ha riproposto una sua personale con queste novità che si allontanano da una certa scultura iperrealista che lo ha reso famoso. Le sue opere passate infatti proponevano figure umane comuni, dolenti e misteriose, spesso colte in momenti intimi e sospesi che però ancora una volta, si agganciano a una certa tradizione europea, ricordando le sculture lignee dipinte dei santi, di cui la Germania barocca è piena, quelle sculture carnose e sensuali che adornano le sue chiese. La differenza è nell’estrema minuzia dei dettagli, nello slittamento delle proporzioni umane, mai naturali, e nei materiali nuovi come resine, silicone, fibra di vetro, che le contraddistinguono.
Per quanti io apprezzi molto il suo lavoro, non so però se la svolta installativa di Mueck questa volta mi convince fino in fondo. La sensazione è che quei teschi, pur sorprendendo inizialmente per la loro imponenza, sono troppo bianchi e troppo grandi, e forse un po’ troppo Pop.