Infine, a partire dalla prima decade del 2000 le autogestioni vennero sostituite da festival della creatività, della scienza, della ricerca, della fantasia, organizzati dai professori. La differenza tra queste settimane e il resto dell’anno è che le regole di silenzio, partecipazione e attenzione vengono ulteriormente attutite, rischiando di essere semplicemente una settimana aggiuntiva di vacanza.
Il momento più interessante di una faticosa mattinata di tavola rotonda, nella quale forse un 10% degli studenti prestava attenzione a noi relatori, mentre gli altri chiacchieravano, guardavano i cellulari, si alzavano per seguire più interessanti gare sportive dei compagni mentre i professori li inseguivano per dire chi poteva o non poteva uscire, è il finale. La generosa professoressa che aveva organizzato il tutto ringrazia gli studenti per la loro attenzione. Solo che, mentre lei li ringrazia, gli studenti si sono già alzati e avviati all’uscita in massa perché era suonata la campanella. La professoressa prosegue il suo ringraziamento agli ospiti mentre l’aula da centinaia di posti è ormai vuota.
L’immagine è perfetta per spiegare la crisi dell’istruzione italiana. La scuola così non funziona perché è nominalisti. I nomi delle cose non corrispondono alla realtà delle cose: la settimana degli studenti è in realtà dei prof, gli studenti vengono ringraziati per un’attenzione che non hanno, l’incontro interessantissimo non interessa a nessuno. Ma tutti parlano bene di tutto e tutti. E il riflesso puntuale della situazione generale: la scuola ormai non può bocciare ma non lo si dice, la preparazione cala per motivi sociali ma non lo si afferma, l’ordine e la disciplina non sono più richiesti ma non lo si sostiene, i voti sono gonfiati ma non lo si condivide.
È inutile fare i moralisti. Ci possono anche essere buoni motivi per abbassare i livelli della scuola o per evitare di proporre modelli sorpassati di disciplina sociale. Tuttavia, il nominalismo non è mai una buona politica. Il far finta collettivamente di vivere in un mondo mentre in realtà tutti sanno che le cose stanno altrimenti è culturalmente pericoloso. Infatti, a fronte di scuole molto più semplici, i ragazzi sono spesso stressati a causa delle loro performance e si sentono impegnati più di un CEO di multinazionale, i genitori si infuriano con i prof per voti e giudizi non ancora all’altezza delle loro aspettative, i prof sono spesso frustrati nelle loro conoscenze e in lotta con presidi che cercano una via diplomatica per spiegare che la preparazione non conta, i test internazionali dicono che i nostri studenti sono più impreparati di qualche decennio fa.
Il problema è che, per quanto si faccia, il mondo reale non si conforma alle parole, smentendole. Solo che, invece che dire “il re è nudo” e accettare la realtà, la soluzione è innalzare ancora di più il livello delle parole, ringraziandoli per la grande attenzione e partecipazione mentre sono già usciti.
Un amico insegnante mi indica la strada provocatoria della rivoluzione, che qui riporto. Il realismo deve cominciare dai voti. Si cominci a dire che per legge non si può più bocciare, ma i voti sono quelli veri: le insufficienze sono tali, e possono anche essere gravi. Tranquilli, nessuno “perderà” degli anni. Ma almeno “guadagnerà” consapevolezza. Un piccolo passo per dire che ciò che conta in effetti è la realtà della preparazione, non l’immagine né degli studenti né dei professori, né tantomeno della scuola. Non so valutare quanto e come questa sia una proposta sensata, ma altre analoghe possono essere pensate, pur di riportare tutti alla realtà. Anche perché senza accettazione della realtà, anche nei suoi lati difficili o ardui, la vita genera facilmente disappunto e violenza, e soprattutto dà meno gusto.