Vita d'artista


Serie A, B, C...

A proposito di arte contemporanea, sono incappata in una delle tante polemiche che imperversano sul web e nelle mailing list degli addetti ai lavori, tutti ormai un po’ âgées (i giovani artisti e i giovani critici, per disinteresse o per prudenza, non partecipano a tali dibattiti). I nomi dei protagonisti della polemica non importano, tanto le due trincee sedicenti avversarie sono le stesse da decenni.

Il primo fronte sostiene che il successo in arte è il risultato di una...

... competizione, in fondo di natura commerciale, con se stessi, col resto del mondo e con la propria capacità di sedurlo. Una competizione che apparentemente sembra radicale e totalizzante e che in realtà non lo è. Essa sarebbe fondata sulla più dura disciplina possibile nel campo dell'auto-promozione, su una fin troppo furba comprensione dello Zeitgeist e su un "ego" da sociopatici senza speranza, nonché sulla disponibilità, a inizio carriera, a risiedere «in qualche grande centro di creatività». E, of course, su molta, forse troppa fortuna. Solo così si diventerebbe "un Cattelan", "un Koons" o un artista "di serie A". Se non si raggiunge la serie A, e nemmeno la B, o la C, c’è solo da guardarsi allo specchio: la colpa è da imputare a se stessi. Probabilmente si è stati troppo pigri, troppo stanziali, troppo poco orgogliosi, troppo poco «disponibili» e allo stesso tempo troppo poco «indisponibili» e così via.

Il secondo fronte della querelle in cui mi sono imbattuta sostiene che tutto quanto sopra è roba per cinici e che «l’arte è un tempio e il mercato lo profana» e che l'artista deve mantenere un minimo, se non di purezza, di idealismo. C’è del vero in questa posizione: negli ultimi anni, specie dopo la crisi del 2008, il mercato globale dell’arte contemporanea è vissuto (molto bene) sul niente ed è diventato sempre più simile al mercato dei derivati finanziari. E' oggettivo. Tuttavia le «provocazioni» che nei Novanta hanno sdoganato e fatto notare diversi artisti di punta sono oggi addirittura trascurate e allora via con nuovi mercati "insoliti" e nuove vecchie estetiche da scoprire e da rivendere: gli artisti i cinesi, gli afro-americani, e domani probabilmente, se Perseverance ci aiuta, i marziani, che immagino già ammiccanti.

In un contesto simile, il pubblico è stanco e i collezionisti tradizionali sempre più incerti. E lo sono pure quegli artisti (di serie A? di serie D? L? Q?) che, cresciuti fortunosamente in Italia, hanno ancora una vaga reminiscenza di cosa sia non una carriera, ma un innato impulso alla verità o alla bellezza. Ma allora, mi chiedo e chiedo loro, cosa vi frega del successo? Chi dovrebbe poi definirlo? In un periodo dove tutto si sta stravolgendo, dove città un tempo di riferimento come New York sono in decadenza pure economica e dove le poche grandi gallerie rimaste sono svincolate da ogni coerenza financo intellettuale, perché arrovellarsi su quanto sia «ingiusto» un sistema che ha già firmato da sé il proprio attestato di insignificanza, per quanto deluxe?

I due fronti della polemica, ovviamente, non comunicano. Si spediscono fragili picconate via web e tutto precipita in un dibattito tra provinciali, con quello «che sono stato in America e ho visto cose che voi di serie B» e quello che invece, nel migliore dei casi, ha passato la vita a dipingere sempre nella stessa stanza di via Fondazza al 36 a Bologna (Giorgio Morandi) o che, nel peggiore, ha trascorso l’esistenza a creare un frammento di bellezza forse troppo personale per essere universale e, soprattutto, durevole.

Chi dei due ha «vinto»? Ma poi, è la domanda giusta da porsi?

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Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite
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