Pensieri e pensatori in libertà


Retorica parlamentare

Ho seguito a pezzi (impossibile seguirlo tutto) il dibattito parlamentare sulla crisi del governo Conte. Per chi studia il ragionamento e il linguaggio è molto interessante vedere la retorica parlamentare trasversale usata da tutti: destra, sinistra, centro e misto. Ogni epoca ha il suo stile.

Dal dibattito emergono alcune tendenze. Innanzi tutto, prevale l’uso del...

... paragone e della metafora. Per semplificare si ricorre in fretta ad assimilare ciò che sta avvenendo con un’altra situazione o con un altro personaggio, più o meno noto: Renzi come il ciclista che non pedala, Conte come un barbapapà, Conte come il conte zio manzoniano, il governo come una barca in mare o come l’armata Brancaleone, Renzi come giocatore d’azzardo, Conte come il trasformista Arturo Brachetti, Conte come Churchill sotto le bombe naziste, e così via.

L’altro grande classico è quello dell’ironia fatta scattare della paronomasia, il gioco di vocali che fa cambiare significato a una parola (si tratta della disfida di Barletta o di Burletta?; vuole fare il ministro a tempo pieno o a tempo perso?), o dalle antitesi (una volta c’erano partiti che cambiavano presidente e ora c’è un presidente che cambia i partiti). C’è poi un uso inaspettato dell’equivocazione come forma di ragionamento: un termine viene preso in due accezioni diverse nella premessa e nella conclusione. È una forma erronea che serve per suscitare la risata, se usato consapevolmente (Conte è sì un avvocato, ma un avvocato d’ufficio; le stelle dei 5S sono temute perché ispirano [come stelle del cielo]).
Colpisce poi l’uso enorme di citazioni: Guicciardini, Manzoni, Pirandello, Goethe, Pasolini, Qoelet, Fallaci, Kundera tra i grandi maestri, ma vanno forte anche libri, canzoni e film, soprattutto se un po’ datati (dipenderà dall’età media dei nostri rappresentanti): Frankenstein, Zelig, l’armata Brancaleone, Barbapapà, De Gregori, Giamburrasca.

Infine, è una continua citazione dell’estero come autorità: “tutti ci guardano”, “siamo un modello per l’Europa”, “i giornali europei dicono”, ecc. In questo caso, purtroppo, non c’è consapevolezza dell’errore di ragionamento (si chiama fallacia ad verecundiam, perché uno si vergogna rispetto ad autorità che non sono pertinenti) e non è fatto per far scattare la risata. È un po’ di provincialismo, che ci è rimasto addosso da una lunga storia di servitù.

In generale, il provincialismo è la cifra di questo stile, curiosamente a metà tra il tentativo di essere aulici, non sempre riuscito, e la fretta di dire la battuta che finisca in un tweet o in una news. L’effetto è un po’ straniante, come di chi avesse messo un vestito vecchio e pomposo per una cena fra amici. Le divertentissime cronache di Aldo Cazzullo sul Corriere.it sottolineano la discrasia tra il linguaggio della politica effettiva in transatlantico e la retorica da aula, ormai a solo uso delle telecamere. Il gap con il Paese reale è già nel linguaggio. Si può fare qualcosa? Per essere una cosa seria, durante il dibattito si dovrebbero togliere telecamere e telefonini personali (che impediscono di ascoltare con attenzione), lasciando la diretta a radio e cronisti. Sarebbe di gran classe e avvicinerebbe lo show alla realtà. Non lo faranno mai.

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