Nel tipico stile giliano fatto di analisi, chiarezza ed esemplificazione, i due autori si occupano della speranza in tutte le sue forme, aspetti e gradazioni, da quella banale del senso comune che “spera” in un bene qualsiasi – e alle volte persino cattivo o contraddittorio con altri (Putin e Zelensky sperano entrambi di vincere la guerra) –, a quella sociale e politica per cui si spera che una certa idea trionfi, fino a quella generalizzata della religione e a quella specifica della virtù teologale cristiana.
Il libro recupera tanti piani, anche quelli storici greci e biblici, e prova a capire gli aspetti cognitivi, emotivi e normativi della passione più indistruttibile del genere umano. Ci sono decine di autori e citazioni belle anche solo da leggere, tanto è potente la forza di attrazione del termine speranza. Qui però voglio presentare due idee che ritengo centrali.
Gli autori ci dicono che la speranza è un bene relazionale, cioè uno di quei beni che vive nella relazione stessa e che fuori da essa non si dà. Così, visto che si tratta di una relazione, per sperare bisogna essere almeno in due. E finché ci sono due persone, c’è speranza. Per restare al tema della scorsa settimana, è in fondo la grande scoperta di Edmond Dantès nel castello di If. Da solo, era disperato e voleva morire. L’apparizione dell’abate Faria, prima che la salvezza, restituisce la speranza. Ciò vale anche nella solitudine di Abramo, che ha il suo partner in un dio-persona che gli promette qualcosa anche quando sembra togliergli tutto. Tanto più ciò vale per i gruppi, i movimenti, i partiti. Perché si attivi quel motore per cui un bene futuro, arduo ma interessante, sia percepito come reale e come sufficiente per motivare la mia azione di oggi, occorre che ci sia qualcuno con cui condividerlo. Giustamente gli autori fanno notare che l’unico luogo in cui non c’è speranza è l’inferno, che forse allora dovrà essere concepito come quello di C.S. Lewis ne Il grande divorzio: una distanza insuperabile e sempre maggiore tra gli uni e gli altri. La conversa di questa legge è che, se l’inferno è solitudine, allora la solitudine è l’inferno. E quest’ultima, invece, si può tranquillamente vivere anche su questa terra.
L’altra idea è che quando si tratta di un bene futuro e generale, quello che gli autori chiamano la speranza generalizzata, il bene che si spera è sempre vago, cioè indeterminato. Speriamo che “tutto vada bene”, che le persone che amiamo siano felici, che tutti andiamo in paradiso, senza sapere determinare che cos’è il bene, la felicità e il paradiso. Non solo, alle volte è indeterminato anche il ragionamento che ci ha fatto scattare quel meccanismo. Perché l’incontro con quella persona, ci ha dato tanta forza? Perché in quel giorno e in quell’ora?
Così la vaghezza, la non determinazione dei fini e dei mezzi, diventa decisiva nei momenti “fatidici” (Goffman), quelli in cui si gioca la vita dell’essere umano. Sono i momenti delle grandi scoperte, della grande resistenza di fronte a forze soverchianti e menzognere, dei grandi sacrifici in nome di ideali che sembrano perdenti. Qui si giocano i caratteri fondamentali che decidono ciò che si è: il coraggio, la costanza, l’integrità, il controllo di sé. Qui, però, soprattutto si gioca il paradosso che è il cuore del meccanismo della speranza e del suo valore per la vita umana: sentire l’attrazione, il fascino del bene ultimo, anche quando è contro ogni calcolo perché è indeterminato. È ciò che esprime magistralmente Kierkegaard parlando di Abramo: “colui che attese l’impossibile, divenne il più grande di tutti”.