Pensieri e pensatori in libertà


Perché piace "Il Conte di Montecristo"

Ho letto il romanzo di Dumas non per la serie televisiva ma perché un amico sudamericano che vive a Parigi me ne ha consigliato la lettura per capire la Francia e i francesi. Nel romanzo, in effetti, si capiscono diversi aspetti della storia e dei costumi della dolce terra d’oltralpe. Per esempio, che il contegno, la capacità di controllo, la non esternazione di sentimenti ed emozioni erano valori dell’aristocrazia francese ottocentesca ed lo sono rimasti nell’educazione nazionale. 

Questo tipo di ideale sociale si sposa con una lingua che, come dice un collega e amico francese, tende all’uniformità perché è pensata per la burocrazia e la diplomazia, due discipline nelle quali occorre saper annunciare cose antipatiche e difficili.

Nel romanzo si capiscono anche le vicende sociologiche di un momento particolare della storia di Francia: la turbolenta era del tramonto napoleonico, della Restaurazione (1815) e della monarchia borghese del luglio 1830. È un’epoca dove si incrociano tre aristocrazie: quella antica e di sangue, quella bonapartista di merito e di spada, quella del denaro. Dumas si schiera per la seconda contro le altre due, ma emerge in ogni caso un mondo corrotto, dove il riconoscimento esteriore copre il vuoto interiore, dove la superbia è regola e il puntiglio legge.

Però, le nozioni sui valori francesi e sulla loro storia non bastano a spiegare il successo della storia di Edmond Dantès. Il romanzo ha molti difetti: la trama a feuilleton, dove tutti re-incontrano tutti al momento giusto; il gusto pruriginoso dello scandalo ottocentesco che va dallo schiavismo all’amore saffico; il teismo un po’ gnostico e un po’ massonico che ricorda lo stile dei cimiteri monumentali delle nostre città. Non è ancora arrivata la profondità psicologica di Dostoevskij e siamo lontani dalla finezza letteraria e filosofica di Manzoni o Hugo. Eppure piace sempre, anche fuori dalla sua epoca. La serie televisiva ne è una testimonianza.

Perché piace? Io credo che il successo stia nell’aver toccato uno dei grandi archetipi della cultura, il rovesciamento totale, quello che Tolkien chiamava “eucastastrofe”, l’accadere improvviso della rivincita del bene. Qui il giusto felice viene tradito e condannato a una vita incarcerata e ignota, peggiore della morte, senza sapere perché, senza capire neanche da chi. È un abisso totale. E, invece, tutto si rovescia in un attimo fino a diventare ricchezza, potenza, forza, riconoscimento, insomma l’ideale della felicità ottocentesca. Il resto è accessorio, e decisamente troppo articolato, anche la storia della crudele sproporzionata vendetta. Serviva per coprire molte settimane delle uscite a puntate e, purtroppo, lo si nota. Ma l’idea profonda è lì, nelle prime e nelle ultime pagine: per essere davvero felici bisogna essere stati davvero infelici. È la storia dell’Odissea, della Divina Commedia, de Il signore degli anelli. Ovviamente, e più in profondità, è la storia della salvezza cristiana.

Si dimostra così, nelle avventure del prigioniero del castello d’If che diventa il Conte quasi sovrumano, lo spettro della realtà abissale e celeste per cui l’essere umano è fatto: siamo fatti per il tutto, per totalità ineffabili, per essere troppo in alto e poter cadere troppo in basso. La frase che vale il romanzo è un commento di Dumas alla sete di ricchezza che si impadronisce del povero ex-prigioniero pochi giorni dopo essere sfuggito all’inferno della prigione di If. “Così Dantès che tre mesi prima non aspirava che alla libertà, ne aveva già abbastanza ora della libertà e voleva la ricchezza. La colpa non era sua ma di Dio che, dando all’uomo una potenza limitata, gli ha messo nel cuore desideri infiniti!”.

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