Insomma, conclude la comica, forse bisogna cominciare a pensare che Trump abbia vinto, e non che Harris abbia perso, e bisogna cominciare a pensarlo in base a qualcosa di fondamentale in una democrazia: perché gli elettori si sentono più rappresentati da lui. Forse è il momento di farsene una ragione e cercare di capire come mai, in positivo, senza disprezzare nessuno dei 73 milioni di americani che hanno dimostrato di esserne convinti, nonostante tutte le opinioni dell’intellighenzia del Paese.
A questo proposito volevo condividere una nota sulla comunicazione italiana rispetto a quanto avviene negli US. In Italia la vittoria di Trump è ancora una volta sembrata una sorpresa. Eppure, tutti i sondaggi, ben raccolti dal sito realclearpolitics che consiglio a tutti gli amanti di politica americana, dicevano che Trump era in vantaggio, sebbene di poco. La media dei sondaggi diceva che Trump era in vantaggio di 1 punto sul voto nazionale e con cifre diverse in quasi tutti gli Stati. Come sappiamo ha vinto il voto popolare con un margine leggermente maggiore, di 2,5 punti, e, con percentuali un po’ più alte del previsto, in molti stati. Come accadeva con Berlusconi in Italia, la gente che vota Trump alle volte non lo dice per ragioni di sopravvivenza sociale, il che fa accrescere i risultati di qualche punto percentuale rispetto ai sondaggi. Evidentemente, per quanto i sondaggisti abbiano aggiustato le stime, non sono ancora riusciti a farlo del tutto. La vittoria del magnate newyorkese, però, era più che annunciata.
Come mai, allora, in Italia la comunicazione è stata così fuorviante? Come mai è stata così fuorviante nonostante l’aver compiuto la medesima sottostima nel 2016 e nel 2020? Eppure, gli specialisti di America sono bravi e preparati: gli articoli dei vari Rampini, Ferraresi, Molinari, Costa e tanti altri sono spesso più che ben informati. Come mai allora questa sfasatura di percezione?
La prima ragione è ovvia: la lente della politica italiana. Si è detto tante volte, ma non si è cambiato stile di comunicazione. I dem americani poco hanno a che spartire con i dem italiani e con la loro lunga storia di socialismo, comunismo e socialdemocrazia. Lo stesso accade per i conservatori americani e italiani. Sono storie diverse che producono atteggiamenti non simmetrici. Solo per fare un esempio, senza capire che Trump si rifà alla tradizione conservatrice pre-reaganiana e che il suo grande avversario teoretico è la famiglia Bush non si capisce nulla: Trump non sarà mai un guerrafondaio né un esportatore di democrazie; si rischia piuttosto il contrario: isolazionismo culturale, frazionamento geopolitico, tensioni commerciali. La lente della politica italiana deforma tutto, appiattendo le differenze ma rendendo così incomprensibile ciò che accade nella decisiva capitale del mondo occidentale.
La seconda ragione è sociologica. Anche i bravi giornalisti italiani, per ovvi motivi, devono vivere nelle grandi città delle coste est e ovest degli US. Alla fine, volenti o nolenti, anche quando capiscono benissimo origini e differenze, e le comunicano, finiscono con l’assumere e comunicare i criteri dei pochissimi luoghi in cui stravincono i dem. Chiunque abbia vissuto non da turista nel resto degli US, sa che la maggioranza degli americani vede le cose in modo diverso, con preoccupazioni e abiti di azione molto lontani da quelli delle grandi città costiere. Per quanto ciò sia ben noto, non c’è nulla da fare: finché non si manderà un giornalista a vivere stabilmente in Indiana o in Ohio o in Texas le preoccupazioni di questa maggioranza saranno sempre viste da di fuori, come in un trattato sull’antropologia di un’isola lontana. In questi i giorni i trattatini di questo genere abbondano, e sono una triste prova dell’incomprensione.
A questi motivi se ne aggiungono altri, che vedremo in prossime puntate di questa rubrica ma, se non altro, il voto di questa settimana insegna che ci sarebbe molto da pensare anche sulla comunicazione in Occidente in generale e in Italia in particolare.