Alla fine, il museo è comunque interessante: si capisce il funzionamento di un sistema che è tanto necessario quanto dato per scontato e si vede in alcuni schermi il time lapse della poderosa crescita ottocentesca di Parigi, che contava quasi tre milioni di abitanti nel 1900. Oggi sono due milioni.
Soprattutto, però, il Museo permette di fare alcune riflessioni sulla comunicazione, in cui vorrei coinvolgere il pensiero dei lettori. Nell’anno in corso ho visitato un museo delle fogne a Parigi, uno delle miniere a Cogne, uno delle officine per la riparazione dei treni a Torino. Altri mi hanno detto di musei dell’agricoltura, della montagna, delle dighe. Stiamo musealizzando tutto. Come mai?
Un primo motivo è che l’era della comunicazione ci ha fatto capire che ogni aspetto della vita porta in sé un potenziale comunicativo. Gli oggetti hanno in sé storie, concetti e valori che i mezzi attuali permettono di esprimere come mai è accaduto prima. Ci sono tanti aspetti della realtà che una volta potevano essere conosciuti solo da chi ne partecipava e, in qualche modo, li amava. L’era digitale permette di allargare e ricreare questa partecipazione e ha educato tutti a vedere in ogni cosa il suo potenziale comunicativo. Le infinite pose per i selfie, le foto dei cibi e degli animali domestici, i video di cucina e bricolage dimostrano l’allargarsi di questa consapevolezza. Le aziende più all’avanguardia, per esempio, hanno capito che mettere a disposizione e utilizzare digitalmente gli archivi è un modo per farsi pubblicità e accrescere la consapevolezza interna dei propri principi e valori.
Un secondo motivo, più strettamente legato ai musei, è che la musealizzazione arriva quando qualcosa finisce. La musealizzazione delle opere religiose è arrivata quando esse hanno smesso di essere pregate. Quella delle armi quando si è smesso di combattere in un certo modo. Stiamo musealizzando i mestieri che non facciamo più, le macchine che non usiamo più, le sofferenze che, per fortuna, non patiamo più. Curiosamente, infatti, mettiamo in mostra tanti lavori fisici, dove la corporeità, che ora in Occidente usiamo poco, è la grande protagonista. Il corpo, del resto, è ciò che stiamo perdendo o che, forse, abbiamo paura di perdere in un’era di sublimazione nel digitale.
Ci sono di sicuro anche altri motivi, che magari i lettori possono segnalarmi, ma val la pena pensarci perché nel bene e nel male, questa epoca della comunicazione è ciò che dobbiamo capire.