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Living. Vivere e i diversi gradi della coscienza

Il film Living di Oliver Hermanus è un remake dell’omonimo Vivere di Akira Kurosawa, il grande regista giapponese, su sceneggiatura di Kazuo Ishiguro, che a sua volta aveva tratto ispirazione da una novella di Tolstoij, La morte di Ivan Il’jic. Una lunga serie di autori per far capire che la novità profonda accade sempre dentro la tradizione.

Nella clamorosa riedizione del medesimo (su Now TV in streaming), ambientata nella burocrazia londinese degli anni ’50, si vede l’eterno problema dell’essere umano, che capisce che cos’è la vita solo perché c’è la morte. Il signor Williams, alto dirigente della burocrazia dei lavori pubblici lodinesi, alla notizia dell’imminenza della fine della propria vita, si rende conto di aver perduto la vita vivendo – come diceva T.S. Eliot nei Cori tratti da La Rocca – cioè di essere diventato ciò che non avrebbe voluto, un vecchio zombie, chiuso nei suoi modi ormai svuotati progressivamente della vita che li aveva generati. “Quando sono diventato così?” si chiede a un certo punto. “A poco a poco” è la risposta.

La riscoperta della vita coincide però non con una distrazione, con il fare cose diverse o mai fatte, come accade in mille filmetti senza futuro, ma con l’approfondimento delle caratteristiche e dei compiti propri: con il diventare un burocrate vero invece che un vero burocrate. La vita vera, sembra dire il film, non è al di fuori delle circostanze solite, ma ne è la mistica profondità, non a caso sancita da un bellissimo canto dell’infanzia scozzese del protagonista, che ne accompagna la rinascita.

Ancora più bello, però, è il modo in cui il grande cambiamento avviene, in cui la vita torna prima della sua fine. Non è eclatante, non è sguaiato, non è irrispettoso. Il cambiamento, che si concentra tutto nel sorriso del protagonista, è nella delicatezza del sentimento, nel rispetto delle relazioni, nella decisione della voce. Non è facile far capire un cambiamento radicale da aspetti così minimali ed è pertanto un capolavoro di regia e recitazione, oltre che di finezza d’animo, quello messo in mostra dal film. Ovviamente, non ha vinto neanche un Oscar, anche se l’attore protagonista, Bill Nighy, era candidato al premio della sua categoria: troppo poco inclusivo, troppa poca diversity, troppa poesia e troppa poca politica.

Del resto, più in profondità, il film mette in scena con la sua finezza un problema molto serio delle nostre società. L’abitudine a palesare la propria coscienza, raccontare a tutti sui social i propri stati d’animo e le proprie vicende personali, a cominciare da affetti e malattie, priva tutti della scoperta del mistero della personalità altrui e dei suoi cambiamenti profondi. Un autore americano parla di pornografia dell’esperienza, e forse ha ragione. Di certo, se non c’è nulla da scoprire, la relazione diventa noiosa perché non impegna più il cervello nell’infinita scoperta del mistero dell’alterità. Non solo, quando l’intimità della coscienza è sempre palesata, sempre esposta, è facile impadronirsene, trasformando gli interessanti e imprevedibili esseri umani in reattivi e prevedibilissimi consumatori.

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Zafferano

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In questo numero hanno scritto:

Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro
Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Alessandro Cesare Frontoni (Piacenza): 20something years-old, aspirante poeta, in fuga da una realtà troppo spesso pop
Giovanni Maddalena (Termoli): filosofo del pragmatismo, della comunicazioni, delle libertà. E, ovviamente, granata
Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite