Pensieri e pensatori in libertà


Correnti

Delle correnti si parla sempre male. Le meno bistrattate sono quelle meteorologiche. Per quelle del mondo sociale, giudiziario e politico non c’è che riprovazione. Fonte di corruzione, di lobbismo, di spartizioni, di abusi di potere. Tutto vero, ma occorre anche considerarne l’inevitabilità e i meriti.

Le correnti esprimono diversità di sfumature e interpretazioni all’interno di una medesima concezione. In fondo, garantiscono una maggiore rappresentanza. Non solo, quando un organismo politico diventa di massa è impossibile fare a meno delle correnti. Per semplificare, come sostiene il prof. Michele Rosboch, uno dei migliori studiosi di istituzioni in Italia, “quando un partito supera il 20% è la sua unica possibilità di avviare una continuità”. Guardata da questo punto di vista, la recente storia elettorale italiana assume altri contorni e forse farebbe bene a rendersene conto il presidente del Consiglio, il cui partito è passato improvvisamente dal 4% al 24%.

Nell’era dei partiti strutturati o prima repubblica, le correnti erano di solito pubbliche ed esplicite. All’avvio della stagione di mani pulite, i vari partiti – con in testa la DC – cercarono di liberarsi delle correnti di fronte allo scandalo delle tangenti e della loro divisione correntizia. Fu una mossa per dimostrare volontà di purificazione, ma fu anche la loro fine.

L’epoca dei leader o del pubblico che guarda al leader come al protagonista di uno spettacolo televisivo, che ha segnato la fase berlusconiana-ulivista da mani pulite fino alle elezioni del 2013, ha visto i partiti o le aggregazioni focalizzate sui loro capi. Il rifiuto berlusconiano della logica delle correnti – esplicitato dal celebre diverbio con Gianfranco Fini – fece sì che la coalizione di centro-destra non acquisisse mai un radicamento sociale, mentre il centro-sinistra si costruiva mimeticamente inventando un anti-leader, come Prodi, che doveva passare il tempo a tentare di cancellare le spinte correntizie dei vari partiti della coalizione. Entrambi gli schieramenti non riuscirono a sopprimere le differenze e non ne capirono mai la forza. Si generò così uno stallo del Paese e la fine delle due aggregazioni.

Dal 2013 è nata un’altra era, l’epoca della frammentazione del pubblico o dei pubblici plurali garantiti dal web 3.0, in cui si è vista la crescita e la decrescita repentina di personalità e partiti: Renzi, M5S, Salvini e ora Meloni. Le forze politiche e i personaggi che ottengono un grande risultato elettorale non riescono a tenere legati a sé gli elettori perché non hanno radicamento sufficiente o adeguato sul territorio. Perché non riescono? Perché non hanno persone significative e aggregative che possano far restare particolarità locali dentro la concezione generale. Ossia, mancano le correnti, oppure, come nel caso di Renzi, non le sanno valorizzare.

In effetti, e contrariamente a quanto spesso si legge, il PD finora riesce a reggere, nonostante la mancanza di spazio politico, grazie alle sue correnti e non è un caso che per resistere abbia dovuto disfarsi di Renzi, che avrebbe voluto uniformare la visione del partito.

Insomma, a ben pensarci, le correnti fanno vivere e non morire. E forse, in un ambito ancora più complesso, ciò vale anche per la magistratura. Senza correnti, probabilmente, le cose sarebbero andate peggio e, in effetti, gli scandali peggiori si sono creati quando le correnti si sono identificate con singole personalità. Del resto, è normale che, anche di fronte a raccomandazioni e tentativi di corruzione, si sia più forti in gruppo che da soli. A meno che il gruppo non si corrompa nel suo complesso.

Tornando alla politica, ora toccherà gestire al Presidente del Consiglio il successo della sua figura e del suo partito. Capirà che se vuole rimanere deve ricorrere alle correnti?


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