LA Caverna


Perché amate cose vane e cercate la menzogna? (Bibbia, Salmo 4)

In latino, l’aggettivo “vanus” è il contrario di “plenus”. Il sostantivo “vanitas” designa “inutilità”, “inconsistenza”, “mancanza di scopo”. “Vano”, nel senso di “spazio abitabile”, è una stanza senza mobili e senza persone; senza vita.

Come è possibile che l’uomo abbia il gusto delle cose che non esistono, il gusto del nulla se, molto spesso, la vanità è la causa di tanti nostri affanni? Stendhal, esperto di psicologia sociale, in una pagina autobiografica, sospira: «Io vedo tutto il nulla della vanità» e Leopardi prova dolore per «l’infinita vanità del tutto». Inseguiamo cose che non ci sono, riconoscimenti che non valgono nulla, consolazioni che non hanno consistenza. Prostrati in adorazione all’altare del materialismo, bisognosi di innalzare il nostro io tramite l’acquisizione di "cose" costruite secondo il principio di "obsolescenza programmata", che, ben presto, le rende inutili; prostrati in adorazione all’altare dell’orgoglio che assume la forma di un’ossessione per la carriera e gli affari, ci illudiamo di essere i padroni del mondo. Rinunciamo alla verità per comprare il biglietto d’ingresso nel capiente pantheon postmoderno, con una rinnovata simpatia verso un politeismo di cose e di valori. Questo nuovo pantheon non raccoglie più gli dèi di popoli, di culture e tradizioni diverse ma moltiplica, in modo vertiginoso, i surrogati e li consuma con una ingorda voracità. Gli idoli postmoderni si scrivono quasi sempre con lettera minuscola: il mio abito, la mia auto, il mio cellulare, i miei capricci...e più gli idoli sono piccoli, più il consumo dev’essere alto creando un vorticoso turnover, per prevenire crisi d’astinenza. Dentro questa società “usa e getta” nulla è duraturo, tutto può essere sostituito all’istante con qualcos’altro o con qualcun altro. L’essenziale si è fatto effimero, i valori sono evanescenti e gli oggetti sono solo orpelli da esibire per offrire un’immagine falsa di sé stessi. Una società fondata totalmente sull’apparenza opera una trasformazione sociale molto pericolosa. La ricerca continua di qualcosa di nuovo con la sua fugace gratificazione ci ha completamente distolti dal nostro “essere nel mondo” in quanto umani e ci ha sradicato dall’ambiente in cui viviamo. (Heidegger) Non sono più gli oggetti a trasformare ciò che ci circonda, ma sono gli oggetti, sempre nuovi e scintillanti, a trasformarci. Questa sudditanza morale, verso ciò che è effimero, senza rendercene conto, la applichiamo anche ai rapporti umani e alle nostre emozioni, trasformando gli altri in una fonte di stimoli usa e getta per la nostra coscienza. Perennemente affamati e mai sazi, persi nella nostra personale catena di montaggio, tocchiamo i pezzi per pochi istanti, per poi passarli in altre mani, senza mai riuscire a comprenderne la funzione. “Consumiamo ogni giorno senza pensare, senza accorgerci che il consumo sta consumando noi e la sostanza del nostro desiderio. È una guerra silenziosa e la stiamo perdendo.” (Zagumny Bauman, “Consumo dunque sono”, Editori Laterza).

 Educati alla conservazione della famiglia, delle tradizioni, della casa, del posto di lavoro, nel giro di un ventennio siamo balzati in un mondo che esige cambiamento, dinamismo e flessibilità. Non diamo più ascolto alle leggi della natura ma a quelle economiche del business che “de-regolano” le nostre esistenze. A forza di cercare il vuoto si giunge a pervertire il senso delle cose, si arriva alla menzogna. Il modello culturale consumistico ci spinge a usare un linguaggio improntato alla falsità, stimola valutazioni di quantità più che di qualità, condiziona la nostra vita relazionale, ponendoci di fronte ad oggetti da gestire e utilizzare, più che a persone da incontrare. Il linguaggio ridondante della pubblicità e quello sfuggente e ambiguo della politica esonerano tutti da un confronto costruttivo, generando nelle coscienze da un lato convinzioni deviate e dall’altro perplessità e sospetti. Pensando, infine, siano i soldi e le cose che si possiedono a dimostrare il valore di una persona, si è interessati a “collezionare” successi, ricchezze e conoscenze, più che a instaurare relazioni significative. Questa menzogna istituzionalizzata ci mette al sicuro da eventuali conflitti e da relazioni umane impegnative. Manovra di un momento ma utilizzata in maniera persistente, la menzogna spinge all’ipocrisia, condannata da tutti, ma praticata da molti. Si arriva così a chiamare menzogna la verità, e verità la menzogna.


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In questo numero hanno scritto:

Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro
Umberto Pietro Benini (Verona): salesiano, insegnante di diritto e di economia, ricercatore di verità
Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Alessandro Cesare Frontoni (Piacenza): 20something years-old, aspirante poeta, in fuga da una realtà troppo spesso pop
Giovanni Maddalena (Termoli): filosofo del pragmatismo, della comunicazioni, delle libertà. E, ovviamente, granata